Periscopio – La casa di Caifa

A proposito della rappresentazione, nell’Inferno dantesco, della figura di Caifa, abbiamo osservato come il supplizio tutto particolare riservato al Sommo Sacerdote risponda alla geometrica raffigurazione dei premi e delle pene elaborata nel poema, la quale è elaborata non solo per esprimere i diversi livelli di santità o di responsabilità delle varie anime incontrate dal poeta nel suo viaggio, ma anche per sintetizzare, a livello artistico, l’insieme della religiosità cristiana, così come da lui concepita. Questa visione, sul piano teologico, non si discosta dai fondamenti della teologia medievale, soprattutto quella tomistica, ma, com’è noto, Dante – pur non andando mai contro quelle che, a livello dogmatico, erano assurte ad asseverate verità di fede per il cristianesimo – si riserva notevoli margini di libertà nel giudicare i vari personaggi e le varie vicende di cui si sarebbero resi protagonisti.
La posizione di Caifa, da questo punto di vista, è particolare, perché, certamente, appare come uno dei principali protagonisti dell’accadimento storico – il processo, la condanna e la messa a morte di Gesù – che rappresenta il centro assoluto delle fede cristiana, e che, in ambito cristiano, finché esisterà il cristianesimo, non potrà mai essere messo in discussione. D’altra parte, la Chiesa non si è mai pronunciata ufficialmente sulla responsabilità individuale dei membri del Sinedrio, semplicemente perché, se esistono, com’è noto, i processi di beatificazione, che impongono ai fedeli di credere che alcune anime beate siano salite in Paradiso, dove resteranno per sempre, non esiste il loro contrario, ossia un processo ecclesiastico di condanna, che riconosca e ufficializzi che alcune anime siano precipitate nell’Inferno, o nel non irrimediabile Purgatorio. Non sono mancati eminenti teologi cattolici, in anni recenti, che hanno ipotizzato, senza incorrere in anatemi ecclesiastici, che l’Inferno potrebbe non esistere, oppure che, pur esistendo, potrebbe essere vuoto (Dante, certamente, non sarebbe stato d’accordo). Quindi, non esiste nessun dogma della Chiesa cattolica relativo alla sorte ultraterrena di Caifa e dei suoi Colleghi, l’unica verità di fede è il racconto dei Vangeli, confluito nella nota espressione del Credo niceno, secondo cui Gesù “patì sotto Ponzio Pilato”. Dove siano andate, dopo la morte, le anime dei protagonisti della vicenda (Giuda, Caifa e Ponzio Pilato: Gesù, ovviamente, è un caso a parte) non è specificato in nessun luogo, ed è lasciato alla libera interpretazione.
Come ho avuto modo di ricordare, nelle scorse puntate, uno studio storico e giuridico del processo di Gesù non c’è mai stato, in passato, prima del Novecento, e l’argomento è stato posto al centro di attenzione, sul piano squisitamente storiografico, solo in tempi recenti, in particolare a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, quando eminenti studiosi, di varia formazione, hanno preso ad occuparsene, sulla base delle fonti (che sono quasi esclusivamente i Vangeli, canonici e apocrifi) e delle generali conoscenze riguardo all’amministrazione della giustizia, in quel tempo, nella provincia romana di Giudea. In precedenza, l’argomento, sul piano ricerca della storica e giuridica, semplicemente, non esisteva, era tabù, si trattava di una questione teologica e basta.
Non è il caso, in questa sede, di prendere in considerazione la realtà storica del Sommo Sacerdote Caifa. Certamente si tratta di un personaggio storico, così come non c’è ragione di dubitare che un processo contro Gesù sia stato effettivamente celebrato. Quanto alla verosimiglianza del racconto evangelico, come ho avuto occasione di argomentare in diverse occasioni, essa è altamente discutibile, per molte solide ragioni. Quel processo, così come raccontato, contraddirebbe molte regole certe della giurisdizione sinedrile, così come la conosciamo, relativamente all’orario, alla raccolta delle prove, ai capi d’accusa, alla pronuncia della condanna ecc. Soprattutto, non è vero che il Sinedrio non avrebbe potuto eseguire direttamente la condanna, e avrebbe dovuto affidarla all’autorità romana. Abbiamo molte chiare prove in senso contrario, la famosa frase del Vangelo di Giovanni, secondo cui la legge avrebbe impedito agli ebrei si applicare sentenze capitali, non corrisponde a verità.
Ovviamente, si tratta di questioni che non c’entrano niente con la bimillenaria nera marea di odio e criminalizzazione collettiva che da quella vicenda – attraverso un meccanismo malato di oscuramento della ragione e della morale – sarebbe stata fatta sgorgare. E che, comunque, esulano dal nostro discorso, perché si tratta di problemi che, al tempo di Dante, e anche per diversi secoli dopo, nessuno si è mai posto. Quel processo, quella condanna erano la verità del Vangelo, e quindi la Verità tout court, non c’era nient’altro, in materia, da indagare, neanche su Caifa. Su lui il Vangelo aveva detto tutto, non c’era altro da aggiungere. E, diversamente da quanto è successo, nella narrativa del Novecento, per la figura di Giuda, per il Sommo Sacerdote nessuno, sul piano letterario (diversamente da quanto accaduto, invece, a livello storico-giuridico) ne ha avviato un processo di riabilitazione. È rimasto, per tutti e per sempre, “il cattivo”. E molti, tra gli odiatori degli ebrei, hanno visto in lui il massimo rappresentante istituzionale del popolo ‘deicida’. Come Giuda sarebbe stato il massimo simbolo del tradimento, Caifa lo sarebbe stato dell’ipocrisia e della spietatezza. Colui che avrebbe condannato a morte, coscientemente, non solo una persona innocente, ma, anche e soprattutto, l’amore universale che questa avrebbe incarnato.
Mi permetto di riferire un ricordo personale, a me particolarmente caro, in quanto riguardante una delle persone più grandi e nobili che, in vita mia, ho avuto l’onore di conoscere, ossia il Rabbino Capo di Roma Elio Toaff. Ebbi occasione di parlare con lui, piuttosto a lungo, poco dopo la storica visita di Papa Giovanni Paolo II, nel 1986, nel Tempio Maggiore di Roma. E mi raccontò – col suo consueto sorriso, ancorché amaro – che, il giorno prima della visita, vide scritta, su un muro di Roma, a grandi caratteri, la seguente frase: “Santità, non andare nella casa di Caifa”.
Dante, con la sua fosca e cupa raffigurazione del Sommo Sacerdote crocifisso e calpestato, ha contribuito, anche se inconsapevolmente, ad alimentare la “nera marea”?
La risposta non può non essere affermativa.

Francesco Lucrezi