Hitler e il fascino del male

“Si può fare un film del genere senza contribuire a espandere l’universo cinematografico nazista?”. È uno degli interrogativi attorno a cui ruota Il senso di Hitler, il docufilm diretto da Petra Epperlein e Michael Tucker nelle sale italiane dal 27 gennaio con Wanted Cinema. Ispirato dal libro dello storico e giornalista Sebastian Haffner The meaning of Hitler (1978), il lavoro esplora l’intreccio infernale tra politica, personalismi e complicità di massa che ha reso possibile la creazione del regime nazista e la fascinazione che la figura di Adolf Hitler ancora esercita sulla società contemporanea. I registi alternano girati d’epoca, documenti storici e interviste a figure di spicco fra cui gli storici Saul Friendlander, Yehudah Bauer e Deborah Lipstadt, gli scrittori Martin Amis e Francine Prose e i “cacciatori di nazisti” Beate e Serge Klarsfeld, celebri per aver assicurato alla giustizia il boia di Lione Klaus Barbie. E mentre il fenomeno emerge nelle sue diverse sfaccettature, l’indagine lo segue nei riflessi di più stretta attualità – da Hollywood alla politica, da Facebook a TikTok. Il risultato è un film che si muove senza tregua fra passato e presente e spostando la prospettiva fra discipline diverse invita a una termini della riflessione sul fascismo. Sebastian Haffner, l’autore del libro a cui il lavoro si ispira, ha assistito in prima persona l’ascesa di Hitler e conosce bene i meccanismi che hanno sostenuto il regime e le sue folli politiche. Sulla sua traccia il documentario, girato in nove Paesi, si sofferma dunque sul personaggio di Hitler e sulla sostanziale difficoltà di afferrarne l’autentica dimensione. Nessuno più di lui è stato descritto e analizzato in sfumature infinite: l’amore per i cani, l’entourage di gerarchi sull’attenti, il codazzo di donne adoranti, l’inclinazione alle droghe, la mancanza di amici, amori, affetti, la discutibile vena artistica, il tratto istrionico. Nessuno è finito più spesso sotto la lente d’ingrandimento degli psichiatri. Negli anni gli sono state attribuite psicopatologie di ogni genere – schizofrenia, disturbo bipolare, megalomania, narcisismo – ma nessuna è mai risultata soddisfacente e forse non potrebbe essere altrimenti. Questa è solo la storia di Hitler, manda a dire questo film. La spiegazione più profonda torna dunque nelle immagini impressionanti che fotografano l’adesione di massa al nazismo della società tedesca, nelle folle in sfilata, le bandiere, le mani levate all’unisono nel saluto nazista. Intervista dopo intervista, si comprende quanto l’oratoria ipnotica di Hitler debba alle nuove tecnologie di microfoni e altoparlanti, alle tecniche di persuasione di massa e all’uso spregiudicato del cinema. Da allora a oggi, notano Petra Epperlein e Michael Tucker, il passo è più breve di quel che si immagina. Hitler rimane al centro di una produzione mediatica sovrabbondante e spesso discutibile e i social tengono dietro. Come ricorda Francine Prose, le sapienti inquadrature di Leni Riefenstahl hanno consegnato i raduni nazisti di Norimberga all’estetica collettiva. Nessun evento politico è mai riecheggiato tanto spesso sul grande schermo e nelle situazioni all’apparenza più innocenti (basti pensare all’esercito delle iene che marcia in sfilata nel Re Leone di Walt Disney). La storia sembra diventata un giocattolo, osserva il film. E la conferma arriva dal negazionista David Irving che ribadisce le sue agghiaccianti convinzioni nel corso di una visita a Treblinka accompagnata dalle telecamere. A ricordare che quella storia ha avuto effetti devastanti, un archeologo descrive gli scavi nel campo di Sobibor. E in pochi tratti l’impatto devastante dell’atrocità nazista e lo sterminio degli ebrei d’Europa si compongono sotto gli occhi dello spettatore in tutta la loro portata immensa. All’uscita del film in inglese, lo spezzone dedicato a Irving era stato molto discusso. Eppure, mentre scorrono i titoli di coda, le ragioni di questa scelta si fanno chiare. Più dei silenzi e delle censure, contro le logiche dell’odio e dei razzismi servono parole, cultura, azioni. Ed è questa la risposta che il film andava cercando. Si può fare un film del genere senza contribuire a espandere l’universo cinematografico nazista. Anzi, un film del genere è capace di riportarlo alla sua più autentica, ristretta, intollerabile natura.

Daniela Gross

(27 gennaio 2022)