La Memoria degli ebrei di Libia
Giado, un silenzio da squarciare

Si è svolta quest’oggi al Verano, su iniziativa dell’Associazione Salvaguardia Trasmissione Retaggio Ebrei di Libia presieduta da David Gerbi, una cerimonia in ricordo degli ebrei di Libia perseguitati dal nazifascismo. Pubblichiamo l’intervento di Rocco Giansante, responsabile del desk Italia dello Yad Vashem.

La tragica storia del campo di concentramento di Giado non è nota al pubblico. Mentre i nomi di località come Auschwitz, Mauthausen o Majdanek hanno acquisito una familiarità che consente loro di riferire significati e concetti che vanno ben oltre le azioni criminali avvenute in quegli stessi luoghi, il termine Giado non riesce ad evocare, non solo un paesaggio ma, soprattutto, la tragedia disumana che vi si consumò: 562 ebrei di Libia furono uccisi a Giado. Nessuna traccia fisica di quanto accaduto si trova oggi a Giado: le strutture del campo sono state rase al suolo; il cimitero ebraico distrutto. Quello che accadde a Giado — e purtroppo in altri luoghi della Libia—non fu solo un capitolo della Shoah, ma anche un mnemocidio che cancellò, insieme alla storia della locale civiltà ebraica, la Memoria della Shoah in Libia.
La cerimonia di oggi, al cimitero del Verano, è un atto di riparazione. Le lapidi che dedichiamo oggi onoreranno la memoria e salvaguarderanno le storie di ebrei le cui vite furono violentemente interrotte a Giado. È essenziale che questo atto di riparazione avvenga a Roma, in Italia, perché il campo di Giado è stato costruito dai fascisti italiani. Il silenzio assordante che avvolge Giado va squarciato: vanno dichiarate chiaramente le responsabilità italiane per quanto accaduto agli ebrei della Libia. Questo è un altro atto di riparazione che attende di essere eseguito.
Tombe, statue, monumenti—come quelli che ci circondano—vengono eretti per mantenere viva la memoria di eventi e persone. Ma per proteggere e rafforzare la memoria delle vittime della Shoah in Libia è fondamentale anche raccontare le storie, conoscere le vite, la cultura e le comunità che gli ebrei di Tripoli, Bengasi, Misurata e altrove nel paese, hanno vissuto, creato e costruito.
Joseph Labi ז׳ל nacque nel 1928 a Bengasi, Libia, in una famiglia numerosa. Era il nipote del Rabbino Eliyahu Labi, rabbino e dayan a Bengasi. Joseph apparteneva al movimento giovanile sionista Maccabi.
Nel 1938, quando le leggi razziali italiane furono estese alla Libia, Joseph e i suoi compagni ebrei furono trasferiti in una scuola per soli ebrei. Dopo la morte dei genitori nel 1940, i fratelli sposati di Joseph si presero cura di lui e degli altri fratelli più piccoli.
Nel 1942 l’intera famiglia Labi fu deportata nel campo di concentramento di Giado in Libia. Seguì la deportazione in Italia, dove furono internati a Castelnovo ne’ Monti. Nel febbraio 1944 i tedeschi li mandarono a Bergen-Belsen. All’inizio Joseph si rifiutò di mangiare perché il cibo nel campo non era casher, ma dopo una settimana di fame cedette.
Uno dei prigionieri, un ebreo religioso, propose a Joseph di celebrare la cerimonia del bar mitzvah. “Indossai i tefillin”, ricordò Joseph. “Per festeggiare, volevo condividere del cibo con i presenti, ma avevo solo una patata. Per fortuna una donna lì presente aveva del profumo. Ne versai un po’ sulla mano di tutti e quello fu il mio bar mitzvah”.
Nel marzo 1945, Joseph fu trasferito in Francia in un accordo di scambio tra prigionieri e da lì si recò in Spagna e Portogallo. “Quando arrivammo a Lisbona, ci rendemmo conto che quell’inferno era per noi finito”.
Ritornato a Bengasi, Joseph incontrò i soldati della Brigata Ebraica dell’esercito britannico che gli proposero di andare in Eretz Israel. “Mi recai alla stazione dei treni. Qualcuno mi diede un cappello, indossai l’uniforme della Brigata Ebraica e mi misero un sacco di moduli in tasca”, rievocò Joseph. “Salii sul treno vestito da soldato e ci dirigemmo ad Alessandria”.
Dopo essere entrato clandestinamente in Terra d’Israele, Joseph visse in diversi kibbutz, si arruolò volontario nel Palmach e combatté nella Guerra d’Indipendenza. Lui e sua moglie Yvonne ebbero un figlio e una figlia, sette nipoti e una pronipote. Conservò il tallit che ricevette per la cerimonia del suo bar mitzvah a Bergen-Belsen.
Joseph Labi fu uno degli ebrei che sopravvisserò. Altre storie aspettano di essere raccontate e tramandate alle nuove generazioni. Così che Giado non resti una parola sconosciuta ai più.
Che il ricordo dei 562 martiri sia una benedizione:

זכר צדיק לברכה ושם רשעים ירקב

Rocco Giansante

Dr. Rocco Giansante
Head, Educational Programs, Italy & Estonia
Overseas Education and Training Department
The International School for Holocaust Studies | Yad Vashem