Servitù e libertà
“Il padrone allora lo condurrà al tribunale e lo metterà vicino alla porta o allo stipite; il padrone gli forerà l’orecchio con la lesina e così egli lo servirà per sempre” (Shemòt 21;6)
In questo passo della nostra parashà, si tratta della rinuncia, da parte di uno schiavo ebreo, alla libertà accordatagli dal padrone ebreo.
La libertà è considerata dalla Torah qualcosa di irrinunciabile e, per colui che la rifiuta, è prevista la “punizione”, di forare il lobo dell’orecchio, davanti a dei Giudici.
Rashì si pone due domande: Di quale orecchio si tratta? Perché proprio l’orecchio è l’organo “punito”?
Per rispondere alla prima domanda, egli si rifà al libro di Vayikrà (Levitico 14;25) in cui si parla di riti di purificazione svolti dai Cohanim, in alcuni casi, dove bisognava segnare ogni parte del corpo, dall’orecchio all’alluce destro, con il sangue di un animale sacrificato per l’occasione. Quindi il maestro sostiene che, siccome in quella occasione è scritto “orecchio destro”, anche in questo caso si tratti dell’orecchio destro.
La seconda domanda è più profonda, e la risposta la si ritrova in un brano, sempre del Levitico, dove è detto: “Poiché i figli di Israele, sono per me dei servi” (Vayikrà 25;55).
Nel commentare il versetto citato, Rashì spiega dicendo: “Per me” sono dei servi e non servi di altri uomini (che a loro volta sono miei servi)!
Ecco che quando un ebreo rinunciava alla libertà, veniva considerato servo di un altro servo ed è per questo che doveva essere punito.
La cosa interessante è che all’inizio dello Yovel (il giubileo), egli doveva assolutamente lasciare quella condizione per tornare ad essere un ebreo libero.
Siamo servi soltanto di D-o e non di altri nostri simili!
Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna