Ebrei di Libia
e persecuzione fascista,
una storia da ricordare
Si è svolta al Verano, su iniziativa dell’Associazione Salvaguardia Trasmissione Retaggio Ebrei di Libia presieduta da David Gerbi, una cerimonia in ricordo degli ebrei di Libia perseguitati dal nazifascismo. Pubblichiamo l’intervento di Yoram Ortona.
Pochi sanno che anche gli ebrei di Libia – di Tripoli, Bengasi e di altre città – hanno subito l’infamia delle leggi razziste. Mio padre Marcello Ortona z.l, ebreo italiano, aveva 16 anni e due gliene mancavano per la maturità classica quando quei provvedimenti gli chiusero in faccia le porte del liceo. Venne espulso dal Ginnasio-Liceo Dante Alighieri, la stessa scuola, ironia della sorte, dove il sottoscritto la mattina del 5 giugno 1967 dovette fuggire a causa dei tragici eventi collegati alla Guerra dei Sei Giorni. Per continuare gli studi mio nonno Federico lo iscrisse alle Regie Scuole italiane Garibaldi di Tunisi dove viveva lo zio Cesare Ortona, direttore dell’Ospedale italiano che qualche anno dopo, anche lui per le conseguenze delle famigerate leggi, fece la stessa fine di Angelo Fortunato Formiggini. Si lanciò nel vuoto dall’ultimo piano.
In due sessioni papà riuscì ad ottenere la maturità scientifica, per ritornare a Tripoli alla fine del ’39. La legge vietava comunque agli studenti ebrei l’ingresso nelle Università del regno. Mio nonno, uno dei due avvocati ebrei italiani di Tripoli, nell’aprile del 1940 chiese un permesso di valuta per poter iscrivere il figlio all’Università di Aix-en Provence. Il Ministero dell’Africa Italiana respinse seccamente l’istanza senza alcuna motivazione. La strada degli studi era nuovamente bloccata. Il 19 luglio del 1942 il “cittadino di razza ebraica” Ortona Marcello fu costretto a denunziare la sua attività professionale. “Assistente nello studio legale del padre” fu la risposta. A quell’obbligo, come riporta la testimonianza di mio padre, erano tenuti tutti gli ebrei di sesso maschile, tra i 18 e 45 anni, fossero essi italiani metropolitani che libici.
Passò qualche giorno e il postino gli recapitò la cartolina-precetto. In mille furono caricati su dei camion militari e trasferiti al campo di concentramento di Sidi Azaz, a 150 chilometri ad est di Tripoli. Dei mille precettati gran parte rimase a Sidi Azaz, 350 furono dirottati nei campi di lavoro, mentre mio padre insieme ad altri undici compagni ebrei fu spedito in Cirenaica al Villaggio Battisti, dove aveva sede il Comando Superiore del Genio Militare. Il viaggio da Sidi Azaz a Battisti durò due giorni interi. Lungo il tragitto vennero superati in continuazione da colonne di blindati dell’Afrika Corps che stavano dirigendosi verso El Alamein.
Il responsabile del gruppo era l’ingegnere Mosè Haddad e poi c’era anche Aronne Hannuna suo amico. Furono alloggiati dentro una ex casa colonica. Il morale era a terra. Ogni mattina si alzavano alle sei in punto per farsi la doccia all’aperto con dei secchi d’acqua tirata da un pozzo. Durante le notti venivano svegliati di soprassalto dagli scoppi di bombe a mano e da assordanti raffiche di mitra. Qualche volta ricevevano le visite dall’alto, come raccontava papà: erano i ricognitori inglesi in azione per fotografare il campo. Una notte duemila pezzi di artiglieria scatenarono l’inferno sulle prime linee italo-tedesche.
Un ordine scritto fu dato a mio papà e all’amico Aronne il 2 ottobre del 1942. Era una sorta di “ruolino di marcia” per far ritorno a Sidi Azaz. Con una vettura di fortuna arrivarono a Bengasi a notte fonda e qui trovarono una città in pieno subbuglio. Era in corso la guerra tra l’VIII Armata britannica da una parte e l’esercito italiano e le truppe di Rommel dall’altra. Il mattino seguente, con le ossa rotte, approfittarono di un automezzo militare che andava verso la località di El Agheila, ma si fermarono prima: faceva molto freddo. Ad un tratto papà scorse una vettura che veniva loro incontro. Era una Volkswagen in dotazione agli ufficiali della Wehrmacht. Mio padre contro la volontà del suo compagno di viaggio la fermò e fingendo un lieve sorriso disse loro: “Siamo tecnici italiani, siamo diretti a Sidi Azaz”. Non perdendo tempo, papà mostrò loro il ruolino di marcia. Quel documento devono averlo letto di fretta, e furono fatti salire a bordo. Dopo diverse ore giunsero a destinazione. Il Signore li aveva protetti.
Il 2 novembre 1942 finalmente furono liberati e si diressero con altri mezzi di fortuna a Tripoli, dove giunsero alle tre di notte sotto una pioggia torrenziale. Papà era bagnato come un pulcino, quando fu sotto casa urlò di gioia: sono Marcello, sono tornato!
Altri ebrei di cittadinanza britannica, circa trecento, ebbero un destino più drammatico e atroce, perché dalla Libia finirono ad Auschwitz e Bergen Belsen, tra i quali desidero ricordare mio suocero Giacobbe Habib (Z”L) che per fortuna però fece ritorno a Tripoli il 12 settembre del 1945.
La prima persecuzione, quella fascista, si era conclusa.
Il 23 gennaio 1943 l’VIII Armata di Montgomery entrò a Tripoli e l’8 febbraio mio padre venne assunto al Corriere di Tripoli, un giornale del P. I. O. (Public Information Office) diretto da Renato Mieli, padre del noto Paolo Mieli.
Il 1° novembre 1945 Marcello Ortona assume la direzione del quotidiano. Aveva solo 23 anni. La gioia per questo risultato raggiunto durò poco perché dopo alcuni giorni, il 4 novembre, scoppiò a Tripoli e in altre città della Libia il primo pogrom antiebraico, che fece numerose vittime, oltre alla distruzione di case, negozi e molte sinagoghe. Così cominciò una seconda persecuzione per lui e per tutti gli ebrei di Libia. Che il loro ricordo sia di benedizione.
Yoram Ortona
(Nelle immagini: Marcello Ortona a Tripoli, il censimento professionale dei “cittadini di razza ebraica” con le sue generalità, il “ruolino di marcia”)
Pubblichiamo di seguito alcuni brani da altre relazioni svolte in occasione dell’evento al Verano:
Una verità molto sentita
Ringrazio molto David Gerbi per avermi invitato ad essere insieme a Voi, in un luogo così significativo e sacro, in questo giorno della Memoria. Tutta la Comunità internazionale si è impegnata nel 2005, con una Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottata grazie ad una iniziativa del Governo israeliano, a ricordare in questa data della liberazione di Aushwitz gli orrori dell’Olocausto. La scorsa settimana un’altra Risoluzione delle Nazioni Unite, sempre per iniziativa di Israele, ha stabilito per tutti i Paesi delle Nazioni Unite che: – “l’Olocausto sarà per sempre un ammonimento a tutti i popoli circa i pericoli dell’odio, del pregiudizio, del fanatismo e del razzismo”; – ci si deve impegnare contro la negazione o distorsione dell’Olocausto attraverso l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e si deve “respingere senza alcuna riserva qualsiasi diniego o distorsione dell’Olocausto, come accadimento storico”. Per gli Ebrei di Libia il riconoscimento, sia pure più formale (attraverso un atto politico) che sostanziale (e cioè nei fatti e nei comportamenti di tutti gli Stati) di queste Risoluzioni delle Nazioni Unite ha il senso di una conferma di quanto sia importante proseguire la lotta intrapresa nei secoli nell’affermare, attraverso la memoria, anche lo straordinario valore della loro identità. Un valore che proprio a causa dell’Olocausto e delle vicende che purtroppo ne sono ulteriormente seguite in diverse parti del mondo, e in particolare in Libia, ha dimostrato di dover essere affermato con grandissimo impegno e senso di responsabilità, come questa grande Comunità di Ebrei ha sempre dimostrato di sapere e potere fare. Negli ultimi anni sono stato particolarmente colpito dalla Vostra capacità di ripercorrere, fare concretamente rivivere e comprendere una complessa, dolorosa, ma al tempo stesso affascinante, e ricchissima storia. Lo avete fatto con i dodici mesi che nel 2017 hanno visto moltissime iniziative commemorare il cinquantenario della vergognosa e drammatica espulsione dalla Libia di tutti gli italiani da parte del Colonnello Gheddafi. Dopo l’inaugurazione, a fine dicembre di quell’anno, la nuova sala sull’ebraismo libico al Museo ebraico, l’allora Presidente del Consiglio sottolineava in Sinagoga che “l’esodo degli Ebrei dalla Libia ha impoverito il Paese”. Un giudizio forte, e una verità molto sentita che riecheggia costantemente nei numerosi libri, articoli e nelle bellissime rappresentazioni che David Gerbi ha scritto, organizzato, interpretato in Italia, in America e portato nel mondo.
Giulio Terzi di Sant’Agata
Una colpa inestinguibile
Mi inchino davanti a tutti i famigliari delle vittime della Shoah, della Libia, d’Italia, di tutto il mondo e vorrei dirvi che mi vergogno di appartenere al popolo tedesco, al popolo il quale ha commesso il crimine più grande dell’umanità: la Shoah. È una colpa enorme, la quale non si estinguerà mai.
Sono nata nel 1965 in Germania in una famiglia profondamente cattolica. I miei genitori mi hanno parlato della Shoah, mi hanno dato dei libri al riguardo. Mio padre studiava l’ebraico, ha fatto viaggi in Israele, era un teologo cattolico.
Ma mai, mai i miei mi hanno parlato dei miei nonni gregari nazisti, da ambedue le parti, Alois e Mattia, entrati nel partito nazista già nel 1933 per comodità, come ho saputo solo pochi anni fa, per avere dei vantaggi.
Dei nonni nazisti gregari come milioni di nonni tedeschi cattolici o protestanti, di cui fino nei nostri giorni viene detto: “Ma no, i miei nonni non erano dei nazisti. Erano dei bravi cristiani!”
Ho cominciato a chiedere troppo tardi, a mettere il dito nel buco nero delle coscienze: “Papà, come mai ti chiami Rudolf?” Silenzio imbarazzato: Mio padre, nato nel 1936, era stato battezzato con il nome di un bambino allora venerato come Beato Martire, Rodolfo da Berna, il cui assassinio, avvenuto intorno all’anno 1250, venne attribuito agli ebrei, motivo per il quale si arrivò ad un terribile pogrom e in un momento successivo alla brutale espulsione di tutti gli ebrei dalla città. Il nome di Rodolfo da Berna è stato cancellato dal calendario dei martiri solo negli anni ’50 del secolo scorso.
In seguito ho chiesto a mia madre, nata nel 37 in una famiglia di insegnanti cattolici tedeschi, cosa avesse sentito dire da bambina dai suoi genitori o nonni sugli ebrei: all’ormai ottantacinquenne è subito tornato in mente quello che le diceva spesso sua nonna e si vergognò di dirmelo: “Sapete, gli ebrei trascinano i loro morti giù dalle scale tirandoli per i capelli!”. Mi venne da piangere.
Due esempi attuali per l’antigiudaismo irrazionale di provenienza cristiana profondamente radicato.
Evidentemente fino ad ora anche nella Chiesa cattolica, nonostante il documento “Nostra Aetate”, in realtà conosciuto e letto da pochi, non si è riusciti a cambiare e ad evitare tutto ciò, nonostante il Padre Eterno abbia posto sin dall’inizio il Popolo Ebraico, il popolo da lui amato per primo, come aiuto duraturo e sfida positiva al fianco dei cristiani e di chiunque voglia percepire tutto ciò.
Questo infatti supera il concetto di fratellanza, usato così spesso in modo spensierato. È molto, molto di più.
Il tentativo di distruggere il popolo ebraico è e rimane il crimine peggiore della storia dell’umanità.
Friederike Wallbrecher, presidente dell’associazione Ricordiamo Insieme