Il minestrone

C’è un vizio di fondo nell’oramai abituale cacofonia che accompagna le ricorrenze pubbliche, nel caso nostro il Giorno della Memoria. Ed è la prevedibile, se non inesorabile, sovrapposizione tra la specificità e unicità di ciò che viene ricordato e la sua plateale, irritante ma quasi inesorabile manipolazione, nella logica demente – ma razionale dal punto di vista di chi la pratica – di banalizzare tutto a proprio beneficio. Una sorta di minestrone è quindi il vero prodotto della lettura esclusiva del Novecento come «secolo degli stermini». Un solo esempio tra i tanti, senz’altro conosciuto da molti dei lettori di queste note: a Ferrara, in un infelice tripudio di luoghi comuni di terz’ordine, si è celebrata l’ennesima messinscena, nel nome di un «festival», poi trasformato in una «settimana», che come unico nocciolo ha quello di delegittimare ciò che è sopravvissuto e rinato nel nome di chi è invece scomparso per sempre. La questione non è l’accostamento comparativo di vicende tragiche, di per sé degne della massima considerazione a prescindere, ma di un cartellone sgangherato il cui filo conduttore si è rivelato essere il rimando ad un inesistente «genocidio». Per cortesia, risparmiamoci gli oramai consunti rimandi all’altrui «ignoranza». Non di ciò si tratta bensì di uno spietato nonché lucido calcolo che usa i simboli e le memorie delle tragedie passate per fare sì che qualcuno possa definirsi vittima esclusiva del presente. Sì, sono cose che già ci siamo detti, in queste e in tante altre pagine. Ma sarà sempre più spesso così. Noi ci opporremo con tutto il fiato in corpo, non per spirito di parte, non avendo alcuna esclusiva, ma per obbligo di verità, mentre gli “altri” rilanceranno all’infinito le associazioni, le omologazioni, le sovrapposizioni, le “parificazioni”. Così come i rimandi alle «dittature», in questo caso quella sanitaria che, a detta degli strologanti, sarebbe omologabile al peggiore passato. Ebbene, in questo deliberato bailamme, in questa confusione totale, c’è una vera vittima. E non è la verità in quanto tale bensì la possibilità di condurre un autentico confronto sulle molte cose che invece premono in agenda, senza che esso da subito trascenda in invettiva e insulto. Siamo oramai all’anno zero, da questo punto di vista. Qualsiasi serena ma rigorosa discussione sugli effetti di lungo periodo di una così lunga sospensione della vita civile qual è quella che ci è stata consegnata e imposta dall’emergenza pandemica, è stata letteralmente divorata dal combinato disposto tra narcisismi, presenzialismi, colloquialismi e vanità di rivoluzionari da salotto. Anche questa, in fondo, non è una novità. Ma francamente deprime poiché manda all’aria qualsiasi riflessione comune su come il ripetersi delle emergenze stia trasformando la nostra abituale quotidianità. Un tempo si darebbe parlato di «cattivi maestri» ma oggi, forse, è meglio riferirsi a tristi clown. In fondo, questa è l’epoca anche del cinismo senza speranza.

Claudio Vercelli

(30 gennaio 2022)