Storie di Libia
Jasmine Mimun Hassan

Jasmine Mimun Hassan, ebrea di Libia, è nata a Tripoli il 18 aprile 1943. Era il tredicesimo giorno di Nissan, antivigilia di Pesach. La sera dopo, per il Seder, i suoi genitori invitarono 18 soldati della Brigata Ebraica, in quel momento di stanza a Tripoli, per festeggiare la ricorrenza. Nella sua famiglia vi erano rabbini, studiosi della Torah e autori di innumerevoli Trattati sulla Cabala e sulla Torah. Il suo trisavolo, Rabbi Jacob Mimun, faceva parte del Tribunale Rabbinico. Il figlio, Rabbi Hai Mimun, seguì la tradizione del padre: fu a capo del Tribunale Rabbinico e autore dell’importante trattato “Beer lehai”.
Erano talmente amati e stimati che, quando in sinagoga si faceva il loro nome, le persone si alzavano in piedi in segno di rispetto. La sua famiglia abitò in Via Perugino ma poi decisero di trasferirsi in una casa più sicura in via Cremona, vicino alla Cattedrale, dopo che nel Pogrom del novembre 1945 suo padre fu attaccato e ferito dalla folla inferocita. Fu salvato da un suo amico arabo, Mansour Ben Barca, che riuscì a riportarlo in salvo a casa. Durante il pogrom del 1948, era un sabato pomeriggio, suo padre Felice Mimun e Banino Mantin, un suo vicino di casa, appena iniziati i tumulti decisero di uscire e cercare di mettere in salvo un gruppo di ragazzi ebrei che si trovavano sul Corso e che abitavano in quartieri distanti, che non sarebbero riusciti a raggiungere in salvo le loro abitazioni. Li portarono in casa loro dove rimasero fino all’indomani, quando la città si tranquillizzò.
Nel 1949 traslocarono in un appartamento in Giaddat Istiklal, vicino al Palazzo Reale, dove vissero fino al 1965. Nel 1966 si trasferirono in un appartamento in Sciara Giacarta 20, che avevano costruito con una porta blindata come difesa in caso di nuovi pogrom.
Jasmine in quel periodo si trovava a Milano, dove studiava il suo fidanzato Giulio Hassan, per i preparativi del prossimo matrimonio .
Il loro rapporto con la comunità araba era abbastanza tranquillo, cordiale, improntato sul rispetto reciproco. Suo padre non dimenticò mai il gesto eroico dell’amico arabo che lo aveva salvato nel 1945, e che purtroppo venne assassinato da altri arabi, per futili motivi. Dopo la morte dell’amico si prese a cuore la sorte e la sopravvivenza della vedova e dei figli. Felice Mimun era molto benvoluto e stimato per la sua correttezza e generosità, considerava le persone per se stesse senza distinzione di nazionalità o credo religioso. Nella sua fabbrica aveva più di 120 dipendenti musulmani, dei quali ricordava tutti i nomi, quanti figli avessero. Li trattava con grande umanità, organizzava feste e regalava giocattoli ai loro figli; organizzava inoltre ogni anno una gita aziendale al mare per tutti quanti con le famiglie, dalla mattina alla sera con una grande grigliata e doni per i bambini.
Invece, per la strada, si veniva importunati.
La sua era una famiglia molto religiosa, si osservavano le Mizvoth, le Feste, andavano spesso in sinagoga di Shabbat, si cucinava solo casher. La madre, francese di Marsiglia, imparò perfettamente la cucina tradizionale tripolina e le tradizioni. Suo padre era molto osservante ma nel contempo liberale. Ogni mattina, molto presto, prima di recarsi al lavoro pregava, e poi andava a lavorare nel pastificio di cui era socio. A tal punto forte fu questa disciplina sulle tradizioni che anche da adulta, lei e la sua famiglia, continuarono a rispettarle e lo fanno tutt’ora, nello stesso modo in cui glielo insegnarono i suoi genitori.
Le cose cambiarono il giorno che scoppiò la guerra dei sei giorni, il 5 Giugno del 1967. Dopo la laurea di suo marito Giulio avevano deciso di non rimanere in Italia ma di trasferirsi a Tripoli, dove vivevano anche i genitori del marito. I due giovani erano tornati in Libia per restarci, e siccome Jasmine dopo un parto problematico non si sentiva ancora molto bene, decisero di vivere per un po’ di tempo a casa dei genitori di lei, in Sciara Giakarta 20, con la porta blindata, in attesa che la villetta regalatagli dai suoceri fosse pronta. I due giovani stavano proprio in quei giorni finendo di sistemare la casa e tutti i regali di nozze ricevuti. Decisero che vi si sarebbero trasferiti il 5 giugno, ma non riuscirono ad abitarci neppure un giorno.
I genitori di Jasmine erano partiti per una vacanza all’estero verso fine maggio, e non fecero mai più ritorno in Libia.
Erano giorni un po’ strani, si sentiva nell’aria che c’era qualcosa che non andava. Ed avevano avuto anche conferme da episodi molto particolari accaduti: c’erano dei piccoli tumulti tra la popolazione araba, tutti piccoli campanelli d’allarme. Inoltre già da maggio si sapeva delle minacce fatte contro Israele dall’Egitto, si temevano le ritorsioni degli arabi in Libia e quindi decisero che era il caso di partire, almeno per un po’ di tempo. Suo marito aveva ancora l’appartamento da studente a Milano e si sarebbero potuti trasferire li fino a che non si fosse calmato un po’ il tutto.
Avevano passaporti libici (non travel document) e consegnarono i loro documenti all’Ufficio Passaporti per poter ottenere il visto di uscita. Successe un fatto importante che li convinse del tutto che quello fosse il momento di partire. Suo fratello Jojo, a tarda notte del primo giugno, aveva ricevuto la visita di un suo amico arabo, anche il suo migliore amico era musulmano, che era venuto per avvertirlo che da lì a qualche giorno ci sarebbero stati dei pogrom contro gli ebrei, e che lui era stato incaricato di ammazzarlo, ma visto che Jojo gli aveva una volta salvato la vita era venuto a pagare il suo debito. Lo avrebbe aiutato ad uscire per andare nel nascondiglio. Jojo non capiva di quale nascondiglio stesse parlando, che lui non ne aveva nessuno e che quel luogo era casa sua e non aveva motivo di averne uno. L’uomo replicò dicendo che non era possibile che una spia israeliana non avesse un nascondiglio. Jojo negò di essere una spia e non riusciva a capire come fossero potuti arrivare a tale conclusione assurda. Il libico gli rispose dicendo che se lui non era una spia israeliana perché mai sarebbe tornato in Libia, dopo essersi laureato in ingegneria in Italia? Perché mai tornare in Libia se non per spiare per Israele. Comunque ribadì che egli era venuto per avvertirlo che presto ci sarebbero state delle dimostrazioni contro gli ebrei. Aveva fatto in modo che gli venisse assegnato quel quartiere per aiutarlo. Ma alla fine di questo discorso, Jojo gli rispose che non sapeva dove andare, e che sarebbero rimasti lì. Prima di andarsene l’arabo disse ad alta voce: ”Dio mi è testimone che ho cercato di pagare il mio debito”. Poi se ne andò.
L’indomani mattina Jojo andò dai capi della comunità ebraica per avvertirli di quello che sarebbe successo, ma nessuno di loro gli credette. In quei giorni il marito di Jasmine si era recato al’Ufficio Passaporti per vedere se erano pronti i documenti, ma gli fu risposto negativamente. Comunque pensarono bene di rifornire abbondantemente la casa di generi alimentari, pasta, pomodori e moltissimo olio, come difesa soprattutto. Influenzati dai racconti di ciò che era successo durante i pogrom del 1945 e 1948 a Tripoli, avevano pensato di farne una grande scorta da versare bollente su eventuali assalitori.
La mattina del 5 giugno suo marito doveva svegliarsi molto presto, per andare a picchettare un terreno fuori città, ma siccome il giorno prima aveva festeggiato il suo compleanno, e avevano fatto tardi, quella mattina non riuscì a svegliarsi presto, quindi non si recò sul posto.
Ad un certo punto squillò il telefono, era un loro amico, Febi Meghnagi,che li avvertiva che la folla stave bruciando le macchine degli ebrei e che avevano bruciato anche quella di sua sorella. Si era stabilito che se fossero scoppiati i tumulti, lui e suo fratello Simone si sarebbero rifugiati da loro e così fecero. L’indomani mattina, molto presto, Giulio, Febi e Simone si recarono, armati di stanghe e catene, a prendere i genitori di Giulio, Giuseppe ed Elsa Hassan, e il fratello Mario; la sorella Pia col marito Shalom Vaturi e il figlio Dario di tre anni e mezzo. Abitavano tutti in Giaddat Istiklal, dove erano stati incendiati tutti i negozi e le fiamme avevano rischiato di raggiungere gli appartamenti. Intanto in Sciara Giakarta si prepararono a difendersi, scaldando l’olio sul fuoco, che poi avrebbero versato addosso agli assalitori, mentre su una finestra con le inferriate che dava sulle scale avevano sistemato dei fili elettrici che attaccarono in modo che, chiunque li toccasse, avrebbe preso una violenta scossa; si armarono anche di ferri, di coltelli e di catene.
Imbottirono il baby coat del bambino per pararlo da colpi, mettendoci biberon, pannolini, latte in polvere ed una lettera indirizzata alla nonna di Jasmine a Marsiglia. Se fossero stati attaccati e fossero giunti agli estremi avrebbero gettato il bambino dalla finestra sul tetto del cinema Odeon, nel suo baby coat, per cercare di salvarlo. In lontananza iniziarono a sentire dei forti rumori, poi urla. Da una finestra della casa potevano vedere molto fumo denso, che si alzava nel cielo; si era saputo che i libici avevano incendiato le sinagoghe, le case, i negozi degli ebrei, e che avevano ucciso anche diverse persone.
La cognata di Jasmine Pia era amica della dama di compagnia della Regina. Le telefonò pregandola di intervenire presso il Re e far cessare i tumulti. Fu indetto il coprifuoco. A Pia fu permesso di partire con il figlio.
La notizia della guerra che scoppiò si sparse per tutto il mondo, e suo fratello Daniel che stava studiando in Italia, preoccupatissimo, telefonò a casa per avere notizie. Mentre gli raccontava cosa stesse succedendo, che gli arabi avevano incendiato le sinagoghe, le case, i negozi e che molti ebrei erano stati uccisi, una voce, quella dell’operatore telefonico arabo, si intromise nella loro conversazione e con voce arrabbiata le intimò di stare zitta, che non doveva raccontare tutte quelle cose, e doveva dire che tutto andava bene, e queste parole le senti anche Daniel dall’Italia. Jasmine si mise violentemente a discutere con l’operatore che per tutta risposta tagliò la linea per le chiamate internazionali lasciando suo fratello spaventato a morte per la situazione. Fortunatamente Giuseppe Hassan, il suocero, aveva un amico italiano che aveva un negozio di alimentari e che li rifornì ogni giorno di cibo, verdura e frutta fresca, così non ebbero bisogno di nulla. L’appartamento si trasformò in una sorta di quartier generale di organizzazione di difesa e di partenze. L’amico Simone, che dirigeva un’agenzia di viaggi, iniziò ad organizzare le partenze per chi volesse lasciare la Libia. Simone aveva un dipendente arabo Muhammad, che veniva spesso a trovarlo portandogli i biglietti per le persone che volevano partire, dando così a tutti la possibilità di acquistare i biglietti anche a credito, cercando sistemazioni sui vari voli che lasciavano la Libia. Nel frattempo partirono coloro che erano rifugiati in casa con loro: rimasero solo Jasmine, suo marito Giulio, il loro bimbo Joseph di ormai quasi tre mesi e il suocero Giuseppe Hassan. Loro non erano ancora potuti partire perché non avevano ancora riavuto i loro passaporti col visto d’uscita, nonostante li avessero consegnati molto prima del 5 giugno. In tutte le case degli ebrei, arrivavano i poliziotti proponendo di scegliere se essere protetti dall’Esercito nel Campo di Raccolta o lasciare la Libia. E seduta stante preparavano documenti di viaggio per coloro che volessero partire. Da loro non andavano perché, in verità, nessuno sapeva che si fossero rifugiati nella casa dei suoi genitori. Un loro caro amico italiano, Omero Orsi, andava personalmente ogni giorno all’Ufficio Passaporti, chiedendo se fossero pronti i visti, e ogni volta gli rispondevano di no. Quindi un giorno decise di andare direttamente dal responsabile dell’ufficio, che era anche un suo amico, chiedendogli il motivo per il quale ancora questo visto non ci fosse. Ed egli rispose: ”Guarda lascia perdere, quello è un generale israeliano”.
Si era sparsa la voce che Giulio Hassan fosse un Generale israeliano e che il padre fosse pure coinvolto. Per quel motivo gli veniva negato il visto d’uscita. Omero smentì questa diceria dicendo che lo conosceva personalmente da anni, e grazie alla sua garanzia ottennero i visti e non appena ebbero i passaporti il 15 luglio 1967, dopo essere stati rinchiusi in casa per quaranta giorni, poterono partire. Gli aerei erano ogni giorno strapieni di ebrei che scappavano. Una loro amica, Floriana Zappoli, che in seguito sposò Omero Orsi e che lavorava alla biglietteria dell’Alitalia, faceva in modo di far partire più ebrei possibile, grazie al nulla osta dato dal responsabile dell’Alitalia Renato Tarantino. Su quel volo furono imbarcati tre passeggeri più del dovuto
Alla partenza agli ebrei, già traumatizzati dal pogrom, era permesso portare solo una valigia e 20 sterline e dovevano anche subire una volta alla dogana le perquisizioni dei poliziotti, che in pratica confiscavano loro i gioielli, soldi e tutto ciò che aveva valore e che alcuni erano usciti a portarsi appresso. Facendosi forte del fatto che l’unico oro che gli arabi sembravano riconoscere era quello giallo, Jasmine indossò tutti i gioielli che suo padre le aveva regalato per la dote: erano brillanti montati su oro bianco. Mentre attendeva il suo turno per passare la dogana, vide che al banco accanto un poliziotto stava maltrattando una famiglia, cercando con prepotenza di togliere loro tutte le cose preziose che possedevano. Vedendo questa scena, e non sopportando questa ingiustizia, si avvicinò e iniziò a discutere con l’ufficiale, rivolgendoglisi con rabbia, urlando che non era possibile che dopo tutto ciò che avevano fatto agli ebrei avessero il coraggio anche di fare questa ennesima vigliaccata. Per non sentire ulteriori discussioni li fecero passare e, come aveva pensato lei, non si accorsero del valore dei gioielli che lei indossava. Comunque finalmente riuscirono a partire e si sistemarono in Italia, a Roma.
Ai suoi figli e nipoti ha raccontato e trasmesso sia ricordi positivi che negativi della vita trascorsa in Libia, ma anche le usanze, le tradizioni religiose ebraiche tripoline, l’osservanza delle Mizvoth, delle Feste, la casherut; la loro liturgia, che è una delle più belle. Ha preferito tramandare queste tradizioni insegnatele dalla propria famiglia, piuttosto che enfatizzare le situazioni traumatiche vissute.
Per la maggior parte della Comunità ebraica è stato traumatico vivere in Libia per la mancanza di libertà, vivendo nel timore di essere derisi, vessati, umiliati, malmenati, solo per il fatto di essere ebrei e fatti sentire cittadini di serie B. Vivendo sempre con la paura dell’arabo. E infine strappati dal loro paese, dovendo oltretutto abbandonare ogni loro avere. Nel 1968 alcuni ebrei poterono tornare a Tripoli, per vendere o meglio svendere alcuni beni, e recuperare qualcosa. Nel 1970, dopo l’avvento di Gheddafi, tutti i beni degli ebrei furono messi sotto “custodia” ed in seguito confiscati. Nel 1973 Gheddafi invitò gli ebrei a tornare in Libia. Avrebbero ricevuto 100 sterline al mese per vivere, cifra irrisoria.
A parte l’estrema povertà nella quale avrebbero vissuto con quella cifra, rimanere o tornare in Libia per essere di nuovo scacciati, torturati, uccisi non era una buona proposta. Poter uscire dalla Libia con tutta la famiglia (bisognava sempre lasciare un membro della famiglia in ostaggio nel passato) per gli ebrei è stato come un miracolo e una liberazione: avevano finalmente potuto assaporare la libertà di esprimere le proprie idee, di trasmettere le proprie tradizioni religiose, le liturgie, la cucina casher. Molti si trasferirono in Israele.
Gli ebrei tripolini vivevano malissimo in Libia, senza diritti: erano cittadini dhimmi. Non c’era nulla da fare, a parte qualche serata in uno degli alberghi, il cinema o il mare. Senza una vera vita sociale, l’unica cosa bella che li sosteneva era la vita all’interno della comunità ebraica. Coloro che si erano trasferiti a Roma si sono “ricreati”, altrimenti mai avrebbero potuto permettersi di fare liberamente una festa, come il Bar Mitzvah, oppure una cerimonia tradizionale del matrimonio.
La sua famiglia non si è dispersa, tutti si sono trasferiti in Israele, anche lei, perché era il suo sogno. In Israele si sente a casa, anzi solo quella è casa sua. Sta bene anche in Italia, dato che ha sempre parlato in italiano, studiato nelle scuole italiane e vissuto in mezzo ad una comunità italiana. Si sente a suo agio in Italia e tutto le è subito familiare, ci viene spesso in vacanza. Pure in Francia, paese di sua madre, si sente un po’ di casa. Ma mai come in Israele, perché lì, dice, sono le sue radici ebraiche. Ed è giusto, afferma, “che ogni ebreo viva nella propria terra, senza vivere nella paura di essere cacciato o discriminato perché ebreo, orgoglioso di esserlo e di avere un paese che lo difenda”.
Di certo i pogrom e le ingiustizie subite in Libia non devono essere archiviate. La persecuzione subita e la confisca dei beni andrebbero affrontate a livello giuridico internazionale, con dei giuristi capaci, facendo causa alla Libia, anche se non esiste un governo. Dovrebbero essere usati tutti i mezzi del diritto internazionale, non chiedere ad amici, conoscenti, ma rivolgersi direttamente a chi è competente. Anche per far preservare i luoghi di culto, le sinagoghe rimaste, i due cimiteri, l’ossario e le lapidi del Cimitero Monumentale che Gheddafi fece sgomberare per costruirci sopra un autostrada e che adesso giacciono in cartoni abbandonati in un magazzino a Bengasi. Sempre a questo livello bisogna assolutamente attivarsi per non far distruggere i luoghi rimasti. Anche se alcune sinagoghe che ancora sono in piedi non venivano molto usate neanche prima, sono comunque simboli della presenza millenaria degli ebrei. Nnel fare causa alla Libia, anche tutto ciò dovrebbe essere conteggiato. Questi luoghi appartengono alla comunità ebraica, e devono essere restituiti e preservati..
Per quanto riguarda la costruzione di un monumento in memoria delle vittime dei pogrom del 1945, del 1948 del 1967 e della Shoah, se cambiasse la politica in Libia sarebbe una buona idea. Però, riflette ancora, se in Libia non vive e vivrà più nessun ebreo, chi si recherebbe a pregare in un mausoleo creato in memoria della presenza millenaria ebraica?
La cultura ebraica libica ha da insegnare ad altre culture? Jasmine non sa cosa dire, perché l’esperienza e la cultura dei popoli sono personali, non possono essere paragonati ad altri. Ognuno ha vissuto la propria sofferenza, l’unica cosa che sarebbe felice di trasmettere è la bellezza dei canti liturgici ebraico tripolini. In Libia nessuno avrebbe potuto realizzare nulla, perché non c’era niente, ad un ebreo non veniva data nessuna possibilità di evolversi. Esisteva solo la continua vessazione. L’unico messaggio che si può trasmettere é che l’esperienza che ogni essere umano deve provare è il vivere nella libertà.

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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(31 gennaio 2022)