Ticketless – Leggere Yehoshua

Studiare la ricezione di uno scrittore in un paese (o in un periodo) diverso dal suo è un genere di ricerca che mi è sempre piaciuto. Leggere Yehoshua s’intitolava un bel volume antologico, curato da Emanuela Trevisan Semi, che però si ferma al 2006. In questo caso la ricezione mi vede in minima parte coinvolto, potendo vantare la primogenitura di una delle prime recensioni apparse in Italia (la raccolta di racconti Giuntina: Il poeta continua a tacere, 1987!). Primogenitura di cui vado fiero per un’altra ragione: fu la prima che “L’indice dei libri del mese” dedicò alla letteratura israeliana in tempi in cui di Israele si parlava molto, ma nulla si sapeva dei suoi scrittori.
Dopo qualche esitazione questa settimana ho dunque letto l’ultimo romanzo, La figlia unica. Ho tardato a farlo perché le ultime prove dello scrittore israeliano mi avevano dissuaso dal continuare. Ero e rimango fermo all’innamoramento nato durante e dopo la lettura dei capolavori dell’esordio: L’amante, Un divorzio tardivo, Il signor Mani, Viaggio alla fine del millennio. Ogni volta che usciva uno di questi libri rimanevo inchiodato alla pagina, dimenticavo di mangiare, di andare a dormire, di sbrigare faccende domestiche anche urgenti. Avevo letto, dell’ultimo romanzo, recensioni freddine, pure su questo portale non sono mancate critiche intorno a singole imprecisioni, ma non di queste mi sarei scandalizzato. Quando l’innamoramento va smorzandosi si aprono le porte della delusione, sempre.
Anche in questo racconto lungo – più che romanzo – la forza magnetica di Yehoshua si riconosce fin dalle prime pagine, ma non è di questo che voglio parlare. L’Italia ha accolto trionfalmente un autore che si può dire che sia stato adottato. Un fenomeno che non ha eguali dimensioni in Francia, Inghilterra o Germania. Yehoshua non ha mai nascosto la sua passione per Pirandello e De Amicis, di quest’ultimo debito La figlia unica porta una consistente traccia. Si può dire che in quest’ultimo romanzo lo scrittore, a modo suo, sciolga il suo debito di gratitudine verso una cultura che per un ventennio circa gli è stata amica. E difatti, oltre al legame con Cuore di De Amicis, Yehoshua dimostra qui di conoscere assai bene le fluidità identitarie di una società cattolica, nel bene e nel male segnata dai compromessi, dalle ipocrisie, ma anche dalle nobiltà e dai suoi splendori. Su questo, nulla da dire. Chapeau. La domanda che mi sono fatto e giro ai lettori riguarda il nostro piccolo mondo. Che idea si è fatta Yehoshua degli ebrei italiani? Chi ha conosciuto o frequentato, chi ha cercato di spiegargli chi siamo, da dove veniamo e che cosa vogliamo o vorremmo essere, che ruolo pensiamo di avere nella società odierna? La mia impressione è che Yehoshua sveli con un filo di crudeltà le aporie di un certo mondo ebraico, che conosciamo e non amiamo per nulla. Un mondo vero, che esiste e che lo scrittore descrive con meticolosa acribia, ma non è per fortuna l’unico: un mondo lombardo-veneto, facoltoso, fatto di agi, vacanze lussuose, macchine eleganti, autisti, fatuità, capricci, dentro il quale il giovane rabbino israeliano chiamato a insegnare l’ebraico alla protagonista non riesce ad imporsi come a una possibile alternativa e così gli insegnanti della scuola pubblica frequentata da Rachele (soprattutto una, da poco in pensione, pallida erede della scuola deamicisiana). Nella sua spietatezza il quadro è realistico, ma lacunoso. Per chi si occupa del ruolo che gli ebrei vorrebbero avere nell’Italia di oggi, l’esperienza è deludente: ci dimostra, per riflesso, se mai avessimo bisogno di ricordarlo a tutti, come un altro ebraismo, meno ricco, più umano, portatore di valori morali più alti – che esiste – fatichi sempre a far sentire la sua voce, tanto da non essere stato capace di attirare a sé Yehoshua nei suoi lunghi e frequenti soggiorni in Italia.

Alberto Cavaglion