Machshevet Israel
La mistica dell’Uno
Alef. Echad, uno. Mi yodea’ – chi sa [cos’è]? – recita la famosa filastrocca mnemo-numerica di Pesach. ‘Uno’ rimanda a unità e unanimità, utopia dello spirito, agognata e quasi mai raggiunta in ambito politico (ma non è illusorio cercarle nella polis, ossia nel molteplice per definizione?); qualunque cosa sia, esso rimanda anche a uniformità e monotonia, che sono la negazione stessa del reale, sempre polifonico, vario e stratificato, multi-verso più che uni-verso. Cos’è l’uno, dunque? Se non ce lo chiediamo, lo sappiamo; se tentiamo di dirlo, lo perdiamo. Così lascia intendere Giulio Busi, ebraista e storico della qabbalà, nel suo ultimo, folgorante, intenso excursus nel numero 1, declinato in tutte le lingue alla base della nostra cultura: l’ebraico in primis, e poi il greco (tò hen) e l’arabo (wahid) e il sanscrito (ekam), un viaggio geo-mentale narrato in un incantevole volumetto dal titolo: “Uno/1. Il battito invisibile” (Il Mulino, Bologna 2022).
Collana di perle pescate tra miti greci, filosofia presocratica, aggadot biblico-rabbiniche e sublimi versi indiani, questi undici brevi capitoli – dieci più uno, per restare in tema – sono altrettante tappe nel mistero, fascinans et tremendum per rubare gli aggettivi a Rudolf Otto, di un concetto, l’uno, tra i più rivoluzionari della storia del pensiero umano, non a caso divenuto cifra, simbolo del Divino. “L’Uno che brucia senza consumarsi – commenta Busi sui primi versetti di Shemot/Es 3, accostati in modo geniale a un mito fenicio tramandato in greco da Nonno di Panopoli (V sec. a.e.v.) – è una contraddizione, certo, ma proprio lo statuto di impossibilità trasforma il fuoco perenne in un segno divino. Anzi, nel divino in sé”. Il fuoco è uno e molteplice ad un tempo, è uno che si divide nel tutto, e di questa metaforica è pregna tutta la tradizione mistica dell’ebraismo, sin dai tempi più antichi. Nello Shir ha-shirim il Divino non si nasconde nella fiamma (shalhevet-Jah)? Una fiamma che si riverbera nella ricerca, nello spazio vuoto, nel silenzio che separa eppure unisce uomo e donna, l’essere umano nella sua unità che, non di meno, resta sempre scissa, in tensione, in torsione “nella gioia e nel dolore”. In quanto alef, l’Uno è muto, impronunciabile, come il Nome. Indicibile e invisibile, ma pure innegabile. Che sia pensato come il Tutto a cui il molteplice aspira, o come il Nulla nel quale l’asceta vedico desidera perdersi – ma anche la qabbalà parla dell’Uno come ain, nulla, e come ein sof, in-finito – l’Uno ma anche l’Unico, secondo la studiosa di qabbalà Yarona Pinhas, “è l’alef, la prima rivelazione del pensiero divino e un particolare che man mano accresce e diventa struttura complessa, la prima cellula che poi si moltiplica in infinite forme, l’elef, mille… Il vocabolo stesso echad – alef, chet, dalet – dice che l’Unità divina è chesed/amore e din/rigore”.
Se le lettere dell’alfabeto ebraico sono paragonabili al sistema periodico degli elementi che compongono l’uni-verso (“i mattoni del mondo”), l’alef è paragonabile all’idrogeno, il primo elemento, semplice e ubiquo, che tuttavia diventa vitale solo quando si sdoppia e di unisce ad altro, all’ossigeno ad esempio per diventare acqua, il luogo della vita. Altrimenti resta altamente infiammabile, ‘fuoco’ appunto, che tutto bucia e nulla consuma. L’Uno, al quale ci si può sì avvicinare, ma da cui occorre tenere la debita distanza (“togliti i calzari…”) e del quale v’è possibile eco solamente in una “sottile voce di silenzio”, percepibile più spesso che non soltanto in interiore homine, nei penetrali del cuore, in quella che Giulio Busi chiama “la camera anecoica” ossia dove non v’è rischio che ciò che sentiamo sia l’eco di noi stessi.
Tra il rimando all’estetica dei silenzi di John Cage e l’evocazione del consapevole ‘in-compiuto’ nella scultura michelangiolesca, Busi si sofferma su un poema di Leonard Cohen, tratto dalla raccolta Thanks for the Dance (pubblicata postuma dal figlio Adam Cohen nel 2019), dove è evocata una figura femminile che si allontana a passo di danza, che danza là dove tutto è stato squarciato – la bellezza è squarciata, e la grazia, e la morte, squarciati il regno e la corona… Con fine intuito, Giulio Busi individua in quella misteriosa danzatrice la decima sefirà, malkhut, ossia la Shekhinà, la Presenza divina nel mondo: “È una delle più belle poesie qabbalistiche che io conosca” annota lo studioso. “La Presenza divina si ritira da Gerusalemme in rovina, si alza verso il cielo… Dio stesso è in lutto, e il ballo della Shekhinà non potrebbe essere più struggente (…) La danza della Shekhinà immaginata da Cohen non compare in nessun testo mistico ebraico. È un’innovazione del cantautore canadese, che dà una cadenza musicale al crollo [lo squarcio] dell’essere”. ‘Il Nome non ha più numero, nemmeno l’Uno’ prosegue la canzone. “Dio tace, e lo stesso Uno svanisce nella tenebra del non-numerabile. Abbiamo forse raggiunto il fondo della notte? La qabbalà ebraica ci parla di riscatto. Il ballo della Shekhinà, sullo squarcio dei mondi, ha uno scopo segreto… quando la più piccola goccia di energia celeste sarà liberata dall’impurità del male, Israele potrà tornare dall’esilio e, nello stesso istante, il cosmo sarà redento”. C’è molto più pensiero ebraico, e molta più speranza, in giro di quanto comunemente si immagini. Vanno però cercati.
Massimo Giuliani, università di Trento
(3 febbraio 2022)