La rivalsa e la negazione
Torna in mente una delle massime di un grande vecchio della politica italiana, oggi perlopiù dimenticato, ma che fu un vivace protagonista della trasformazione del nostro paese in una democrazia costituzionale e sociale. Si tratta di Pietro Nenni che ebbe a dire: “gareggiando a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura”. Partiamo da questo riscontro, ahinoi, spesso dimenticato nell’età che stiamo vivendo, fatta di spiaggiamenti culturali e civili ai quali si sostituiscono, assai spesso, approdi identitari di dubbia consistenza. Ma difesi come se fossero le casematte di una fortificazione sottoposta all’altrui aggressione. E andiamo poi oltre nell’ordine della riflessione. La propensione a rendere causa di divieto ciò che più e peggio urta la nostra sensibilità, quando ne costituisca non solo un’offesa ma anche una perversione, è del tutto comprensibile. Il divieto stesso può assumere molti caratteri, non trattandosi necessariamente di un impedimento assoluto ma della richiesta, comunque categorica, di astenersi dal perseverare in atteggiamenti, in condotte, in dichiarazioni che per il fatto stesso di essere fatte oggetto di comunicazione pubblica, ledono diritti, dignità ed interessi legittimi. Oltre che anche lo stesso senso di ragionevolezza, un bene collettivo che non va mai sottovalutato. Che cosa costituisca effettiva discriminante tra l’affermazione (e con essa la rivendicazione) di un’opinione, ancorché radicale e abrasiva ma pur lecita, e un’azione che invece va intesa come socialmente inaccettabile – come tale da censurare e interdire – è tema per nulla facile da dipanare. Spesso, i confini tra l’una cosa e l’altra possono rivelarsi labile o comunque mutevoli. Abbiamo ripetutamente denunciato le nequizie del negazionismo nel campo della Shoah. Una parte stessa del lavoro sulla memoria e della lotta contro l’antisemitismo trova un punto di convergenza in questo obiettivo, ravvisando inoltre che la negazione del passato è parte stessa del rinnovarsi del pregiudizio. A una tale disposizione di principio si è quindi accompagnato l’impegno per contrastarne la diffusione, soprattutto sul web e nei mezzi di comunicazione che svolgono una funzione strategica nella formazione dei giudizi di senso condiviso. Diverse sono invece state le ipotesi relative a come meglio capitalizzare un tale impegno: non tutti, infatti, hanno ravvisato nel ricorso alla via giudiziaria, e quindi alla repressione penale, la strada più appropriata. Per più ragioni. La questione, va da sé, non rimanda ad un insensato anelito di tolleranza, laddove una tale questione nei fatti per nulla si pone. Non è quindi questo il vero punto. Come non lo è neanche quello della mera efficacia. Semmai il tema più importante è quello della potenziale rischiosità del ricorso alla giustizia laddove questo possa essere inteso come sostitutivo o alternativo – comunque succedaneo – alla lotta politica che il contrasto al negazionismo invece richiama a pieno titolo. Così come, ed è un altro passaggio importante in questa riflessione, il pericolo che il tema del negazionismo venga manipolato da chi è interessato a farne un uso spregiudicato per ben altre ragioni, ossia per mistificare la storia e non per condannare i mistificatori, evidentemente appartenendo a quest’ultima schiatta, si è già delineato in più di una circostanza. Siamo in prossimità del Giorno del Ricordo, a sua volta ricorrenza civile istituita nel 2004. Sulla materia che è (o dovrebbe essere) al suo centro, esiste una letteratura scientifica di ampio respiro, più che consolidata. Come anche una pubblicistica di vaglia, accessibile ai molti. Natura, dinamiche, dimensioni e numeri sono quindi sufficientemente noti. Il lavoro è stato portato avanti per decenni, prima in sordina poi nell’ufficialità. Peraltro, continua a tutt’oggi. Tuttavia, come spesso può capitare nelle politiche delle memorie, che sono per loro natura anche terreno di conflitto partigiano, al netto delle retoriche sulle “condivisioni” e sulle “parificazioni”, una parte delle forze politiche se ne è appropriata, torcendo il significato non solo storico ma anche civile di quegli eventi. La torsione avviene quando di essi non solo se ne dà una lettura di parte, completamente slegata dal riscontro fattuale, ma se ne assume la residua ragione dei fatti per usarla come strumento di delegittimazione dei propri interlocutori. In un gioco dove un tragedia viene contrapposta (o sovrapposta, il che è spesso la medesima cosa) ad un’altra, a volere non solo azzerare i contatori della storia ma anche quelli del torto. Tutti colpevoli, nessun colpevole, men che meno chi causò per davvero il disastro umano e civile. È questa la vera tessitura di fondo di un tale modo di agire. L’oggetto di interesse sotteso non è quello della memoria dei trascorsi di una tragedia comune ma del presente di una rivalsa di parte. Che si esprime, non a caso, attraverso il ricorso alla minaccia di interdizione, nel nome di un presunto “negazionismo” altrui. Ad essere stati sottoposti al fuoco di fila sono allora, in tali casi, non quanti negano o rimuovono i fatti ma coloro che cercano di fare un onesto lavoro, basato su indagine, contestualizzazione, comprensione, interpretazione. Esercizi e declinazioni della ricerca che vengono sbaragliati come se fossero ricami nel vuoto. Non a caso, gli strali minacciosi di alcuni politici si sono rivolti contro gli studiosi, colpevoli di volere storicizzare gli eventi. L’uso politico del Giorno del Ricordo, ossia il ricorso ad esso in una sorta di compensazione competitiva del Giorno della Memoria (e non solo di esso), è anche un indecoroso esercizio di censura della libertà di ricerca e comunicazione, sotto le spoglie di una “par condicio” della storia e, quindi, di una lottizzazione del passato. Non di meno, è uno schiaffo alle vittime medesime, usate come delle comparse di comodo dentro una scenografia che raffigura e incapsula ciò che fu all’interno di una cornice di pura demagogia. Qualcosa di molto deprimente, soprattutto per chi visse quelle vicende. Ma ci dice anche, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che il richiamo allo strumento censorio e sanzionatorio del giudice, laddove vi possa sussistere un’ipotesi di offesa della verità storica, non è per nulla detto che costituisca una garanzia di imparzialità. Certi strumenti non sono mai neutri. Conta soprattutto chi li usa, il come e – ovviamente- con quali finalità.
Claudio Vercelli