Ebrei di Libia e benemerenze,
la Corte dei Conti cambia rotta

Nella tormentata, lunga vicenda sulla concessione degli assegni di benemerenza da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze a chi è stato perseguitato dal regime fascista per essere ebreo, in Italia o nei territori ove trovarono applicazione le leggi razziste, come la Libia o le ex colonie italiane, è doveroso segnalare una recente sentenza, che potremmo definire coraggiosa, nel panorama dell’altalenante giurisprudenza della magistratura contabile che della materia si occupa.
Mi riferisco alla sentenza della Corte dei Conti, Sezione Prima Giurisdizionale Centrale d’Appello, n. 349, pubblicata il 15.9.2021, che ha ribaltato la precedente decisione di primo grado con cui la Corte dei Conti della Lombardia aveva respinto, con sentenza n.195 del 18.7.2019, il ricorso di un cittadino ebreo italiano, di origine libica, che aveva chiesto nel 2016 l’assegno vitalizio di benemerenza previsto dall’art. 3 della 22.12.1980, n. 932.
La Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali aveva negato il trattamento, in quanto gli eventi addotti erano stati ritenuti generici e non configurabili come atti persecutori, in considerazione degli accadimenti storici (bombardamenti aerei francesi e inglesi) che avevano indotto nel 1940 i residenti a lasciare la città di Tripoli, per rifugiarsi in località meno esposte come, nello specifico, Garian.
La pronuncia dei giudici milanesi aveva, del pari, ritenuto di dover respingere il ricorso, in quanto non si sarebbe precisato “quali sarebbero state le ‘persecuzioni e angherie’ lamentate, né potendosi con la necessaria sicurezza escludere che la fuga della famiglia a Garian fosse ricollegabile non alle conseguenze delle leggi razziste ma ad altre cause”.
L’appellante aveva anche evidenziato come la più recente legislazione (art. 1, comma 373, l. n. 178/2020) avesse stabilito che, nel caso di persecuzioni per motivi di ordine razziale, gli atti di violenza o sevizia subiti in Italia o all’estero si presumono, salvo prova contraria, disciplinando in tal modo la questione dell’onere della prova. Su questo punto la Corte ha però ritenuto che la novella legislativa non ha effetto retroattivo ma è “rivolta al futuro e non può riguardare posizioni già esistenti e che debbono essere trattate sulla base delle disposizioni esistenti al momento in cui la domanda amministrativa è stata proposta”.
Ecco il primo aspetto rilevante nella pronuncia della Corte Centrale: il ribaltamento della sentenza di primo grado non è dovuto alla significativa innovazione che ha portato alla legge n. 178 del 2020 e che ha statuito, dopo decenni di vigore della Legge Terracini, la non necessità di provare le persecuzioni per chi, ebreo, quel periodo ha vissuto. Il che dimostra che, applicando correttamente le norme esistenti, si può, e si deve, riconoscere l’esistenza, il dramma e l’impatto delle leggi razziste nei confronti di chi ha dovuto subirle.
Occorre anche chiedersi quale sia l’innovazione, per la quale la Corte ha ritenuto le circostanze addotte dall’appellante sufficienti a dimostrare la sussistenza di una persecuzione per motivi di ordine razziale. Nel periodo dal 1941 al 1943 la famiglia del ricorrente, nato nel 1940, fu costretta ad allontanarsi dalla propria residenza di Tripoli per stabilirsi nella località di Garian, per sfuggire alle persecuzioni conseguenti all’appartenenza della famiglia alla comunità ebraica. Forse per la prima volta, o in un caso piuttosto raro nel panorama di sentenze che siamo stati abituati a leggere in questi anni, la Corte dei Conti, facendo un deciso “passo avanti”, su cui a breve si ritornerà, ha basato il proprio convincimento sulle circostanze “riportate in modo sufficientemente specifico nella documentazione storiografica allegata dalla parte ed in particolare nel volume, di Renzo De Felice, Ebrei in un paese arabo: gli ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e sionismo (1835-1970)“, in cui emerge – in questo caso in una nota a piè pagina – “un contesto in cui i fascisti non volevano sopportare né vedere tra i piedi nessun ebreo, e molti di questi che cercavano di raggiungere in treno altre località, furono fatti scendere a forza con l’argomento che ‘puzzavano'”. E ancora, afferma la sentenza: “Nel ricorso introduttivo viene riportato anche che la famiglia…fu una delle più conosciute e più coinvolte nella comunità ebraica tripolitana”, riferendosi alle parole di un altro autore citato dalla difesa del ricorrente (Emiliano Di Silvestro, La tormentata storia degli ebrei di Libia, seconda parte, in Limes, febbraio 2013).
Da qui il principio messo in luce dai Giudici della Corte romana: “Dal compendio documentale prodotto in giudizio dall’attuale appellante, si può trarre la conseguenza che, soggettivamente, la famiglia cui apparteneva l’attuale appellante è stata destinataria di violenze, tanto da essere indotta a trasferirsi presso una località dell’interno, Garian, per evitare di essere esposta a ulteriori effetti negativi”. Da tale assunto, innovativo perchè considera elementi probanti le indagini storiografiche, deriva che “la lesione del diritto della persona non è sufficiente per far sorgere, in capo al soggetto leso, il diritto ad uno degli assegni medesimi: occorre che gli atti di violenza muovano da intento persecutorio, determinato dalla condizione razziale del soggetto leso, con l’avvertenza che la motivazione razziale può presumersi ove la violenza…abbia colpito un soggetto appartenente alla comunità discriminata”…È necessario, ancora, che siano avvenuti ad opera di “persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista”. Occorre, quindi, che gli atti lesivi siano riferibili ai soggetti indicati dalla norma, secondo i consueti criteri di imputazione soggettiva delle azioni, e quindi con applicazione del principio generale secondo cui non impedire un evento che si ha la possibilità di impedire equivale a cagionarlo. Pertanto, vanno considerati commessi dai soggetti di cui sopra, non soltanto gli atti di violenza da essi direttamente compiuti, ma anche quelli da essi ordinati, promossi o comunque non impediti, ove ne fosse possibile l’impedimento.
Principio, questo, per certi versi in controtendenza rispetto ad un orientamento che sino a poco tempo fa faceva scrivere ai giudici non esser “sufficiente un generico stato di disagio e di timore di eventi infausti, indotto dalla politica generale antirazziale delle autorità dell’epoca. Peraltro, tale stato di timore e la conseguente esigenza di nascondersi non poteva non essere comune alla totalità della popolazione ebraica in quei tempi” (Corte dei Conti Centrale, n. 507/2015).
Dunque, un “mutamento di rotta della Corte dei Conti”, come l’ha definito Riccardo Bencini il 27 gennaio scorso, in un commento alla sentenza sul quotidiano Diritto e Giustizia.
Ma è doveroso aggiungere che questo mutamento di rotta, che si spera prosegua da parte della magistratura contabile, così come da parte della Commissione istituita dalla Presidenza del Consiglio per le provvidenze ai perseguitati razziali, lo si deve forse anche all’iniziativa portata avanti negli ultimi anni con determinazione dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, attraverso la sensibilizzazione della Presidenza della Corte dei Conti, sino alle lezioni tenutesi lo scorso anno a centinaia di magistrati alla Scuola di Alta formazione della Corte sulla situazione dei riconoscimenti ai perseguitati razziali e sulle criticità emergenti in molte pronunce. Criticità che hanno comportato conseguenze, tradottesi in provvedimenti di diniego, in sede amministrativa o giurisdizionale, talvolta devastanti per quei perseguitati che non sarebbero riusciti a provare le persecuzioni subite, pur descritte con dovizia di particolari. Purtroppo, al di là dello stretto perimetro circoscritto dalla legge Terracini per qualificare le persecuzioni razziali, il fenomeno è dipeso sovente da una scarsa conoscenza di quella storia particolare, da parte di chi deve applicare il diritto alle vicende storiche cui lo stesso è necessariamente collegato. Eppure non dovrebbe mai dimenticarsi che “da sempre la storia permea il diritto e ne costituisce parte integrante”, perché “non vi è diritto senza storia del diritto e da sempre il giurista, anche senza alcuna vocazione o competenza di storico, indaga e ricostruisce le regole nella loro genesi e nel loro sviluppo nel corso del tempo” (Giorgio Resta-Vincenzo Zeno Zencovich, in Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, 2012).

Giulio Disegni, vicepresidente UCEI

(Nell’immagine in alto: una foto d’epoca della sinagoga Dar Bishi di Tripoli durante una visita ufficiale – Astrel)

(7 febbraio 2022)