Storie di Libia
Jasmine Mimun Hassan / 2
Jasmine Mimun Hassan, ebrea di Libia. Risponde a che tipo di messaggio vorrebbe trasmettere, alle future generazioni, della cultura ebraico tripolina. Una dote innata: consiste nella capacità di non scoraggiarsi e di rimboccarsi le maniche, di trovare sempre la forza di affrontare ogni situazione con dignità e coraggio, di esercitare sempre il dono dell’ospitalità, di essere sempre felici e grati di ciò che il Signore ci dà. È dispiaciuta invece che non si sia tramandata l’arte di lavorare l’argento o l’oro o altre forme di artigianato nel quale gli ebrei di Libia eccellevano e che dovettero insegnare agli arabi prima di partire per Israele negli anni 1949/1952.
Jasmine e Giulio riuscirono a lasciare Tripoli solo il 15 luglio 1967 e si stabilirono a Roma, in un appartamento in Largo Somalia. Dopo un po’ di tempo si seppe che alcune signore ebree erano tornate a Tripoli per cercare di recuperare un po’ di cose che avevano lasciato e vendere alcuni possedimenti, per rimediare liquidità da riportare in Italia, ed erano tornate sane e salve. Man mano si seppe di altri ebrei che erano tornati a Tripoli, alcuni lavoravano, altri per vendere. Verso il mese di novembre suo marito Giulio le disse che aveva deciso di tornare a Tripoli, perché non era giusto che suo padre, dopo aver lavorato tutta la vita faticosamente, dovesse perdere tutto. Lui, proseguì, doveva fare qualcosa per cercare di recuperare e vendere un po’ di beni. Si sentiva in dovere di farlo per suo padre. Lei ne fu molto contrariata. Ma lui era convinto che non ci sarebbe stato nessun pericolo in Libia e che gli arabi ormai non avrebbero fatto più niente. Lei conosceva Giulio da quando aveva 15 anni, ora ne aveva 24, e si era sempre fidata di lui, del suo giudizio, del suo modo di pensare, quindi gli disse che se lui era così convinto, allora sarebbe andata anche lei col loro figlio. Così partirono, e si stabilirono nell’appartamento dei genitori di Jasmine, in Via Giacarta, con la porta blindata, dove si erano rifugiati durante il pogrom, e che fortunatamente si trovava in una strada tranquilla, non in vista. Una volta sistemati, ritrovarono anche alcuni amici ebrei. L’avvocato Simone Habib si trovava anche lì con la moglie Maria Pia e la figlia Fortunee, di poco più grande del loro figlio. Mentre i mariti erano impegnati nel lavoro le mogli si incontravano per portare a spasso i bambini ai giardinetti. Guardarsi in giro era veramente triste, perché tutto era così squallido, le strade erano vuote, non c’erano macchine in giro né persone, ben diverso da quando c’erano gli ebrei. Gli arabi che giravano li ignoravano, non erano minacciosi, non li importunavano, nè molestavano. Da novembre, rimasero in Libia fino alla fine di dicembre: poi rientrarono in Italia. A Roma suo marito, che si era laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano, aveva iniziato a lavorare nel campo dell’edilizia, nella zona di Aprilia, Latina. Ritornarono a Tripoli altre due o tre volte durante il ’68, ripartendo per Roma l’ultima volta a fine agosto. Giulio tornò a Tripoli un’altra volta nel gennaio 1969, per una decina di giorni. Questa volta lei non lo potè accompagnare perché era in avanzato stato di gravidanza. Infatti la figlia nacque il 26 gennaio del ’69. Ormai la loro vita si svolgeva in Italia, avevano fatto nuove amicizie ed il lavoro proseguiva e non si pensava di tornare in Libia. A fine giugno del 1969 però il marito annunciò di dover tornare di nuovo, perché c’era l’occasione di vendere alcune proprietà rimaste di suo padre, e che si sarebbe trattato di un periodo abbastanza lungo. Lei ne fu contrariata, ma non potendo cambiare questa sua decisione, anche per non spezzare la famiglia, decise che si sarebbero recati tutti a Tripoli, dove il mare era bellissimo, e avrebbero passato l’estate insieme. Egli partì per primo, anche per trovare una casa in affitto nel quartiere americano, in un luogo anche abbastanza nascosto lontano dalla città. Purtroppo non potevano usufruire dell’appartamento di Sciara Giakarta che nel frattempo era stato dato in affitto ad una famiglia inglese. Jasmine si organizzò assumendo, per aiutarla con i bambini, una ragazza alla pari inglese, che si chiamava Susan, e partirono per la Libia. Una volta arrivata però seppe che quella casa che avevano pensato di prendere non era più disponibile, quindi decisero di sistemarsi a casa dei suoceri, che si trovava al centro del corso, purtroppo molto in vista, sulla strada principale. Di questo non era felice, ma purtroppo non avevano altra scelta. Fu un grande errore. Verso il 20 di agosto suo marito dovette tornare a Roma per pochi giorni, lei rimase a Tripoli. Il 21 agosto 1969 un giovane australiano protestante, disturbato di mente, incendiò la moschea Al Aqsa a Gerusalemme. Si pensò subito che ci sarebbero state a Tripoli ritorsioni contro gli ebrei presenti, ma tutto rimase calmo. Saputo ciò che era successo suo marito la chiamò da Roma, per dirle che sarebbe stato meglio per lei tornare in Italia. Jasmine rispose che se lui non doveva fare più nulla a Tripoli sarebbe tornata, ma se invece aveva ancora cose da sistemare l’avrebbe aspettato, dato che lì era tutto calmo.. Quando Giulio si accingeva a partire per Tripoli, sua suocera andò da lui disperata e lo implorò di non partire, che aveva fatto un brutto sogno, che qualcuno lo avrebbe preso e portato via. Egli non prese sul serio questa sorta di profezia e tornò a Tripoli. Anche i fratelli di Jasmine, che ormai vivevano in Israele ed avevano avuto informazioni che qualcosa sarebbe accaduto in Libia, lo pregarono di non partire.
Giulio tornò a Tripoli verso il 24 agosto. La data di partenza finale per tutta la famiglia era stata fissata per il 31 agosto, mentre Susan sarebbe partita il 30. Il 30 Agosto Susan partì e Jasmine le affidò anche delle valigie con tutti i suoi vestiti e oggetti vari, rimanendo solo con gli abiti con i quali poi sarebbe partita. Arrivò il 31 di agosto, il giorno della partenza. Quella mattina suo marito, invece di prepararsi per partire, le disse che lui doveva rimanere. A queste parole fu presa da una grande agitazione, di cui non capiva il motivo, e lo supplicò di ripartire. Ma lui non poteva e, se era così preoccupata, poteva rimanere anche lei. Il fatto di restare con Giulio la tranquillizzò. Durante la notte sentirono degli spari e non riuscendo al momento a capire cosa stesse succedendo rimasero svegli. Verso l’alba del Primo settembre, iniziarono a sfilare degli ufficiali libici sul Corso, dicevano di essere soldati unionisti liberi, venuti per liberare il paese dalla dittatura del re. La strada, oltre agli ufficiali dell’esercito, era colma di gente, capirono che era scoppiata la Rivoluzione. La città ormai era sottosopra, e fu indetto il coprifuoco. La mattina precedente, dovendo partire, aveva svuotato il frigo, non aveva fatto la spesa ed era preoccupata perché non sapeva cosa dare da mangiare ai suoi figli. Guardando da una finestra, vide che era aperta la farmacia. Allora scese, ma c’era un soldato che faceva da piantone e le disse che non poteva uscire perché c’era il coprifuoco. Ma Jasmine disse che doveva andare in farmacia; allora il soldato la fece passare, entrò in farmacia e prese tutti gli omogeneizzati che c’erano, li avrebbe dati anche a suo figlio di due anni. In quei giorni si continuarono a sentire spari, si sapeva che il popolo faceva la spia su dove si nascondevano gli ex membri del Governo, che venivano arrestati e spesso giustiziati. Sembrava che la popolazione non ce l’avesse con gli ebrei ma solo con i membri del governo e con i loro collaboratori. L’8 settembre andò a trovarli un loro caro amico ebreo italiano, Saulino, che tutto tremante raccontò loro che, alcuni giorni prima, mentre era con altri giovani ebrei nel centro della città, un gruppo di soldati li aveva additati dicendo che erano ebrei. La polizia li arrestò e portò in caserma, furono interrogati e buttati in una cella dove passarono la notte. Il mattino dopo vennero liberati perché ognuno di loro era cittadino straniero e i vari consoli li avevano fatti liberare. Questa brutta esperienza gli aveva fatto capire che stavano cercando di nuovo gli ebrei e che presto sarebbe iniziata una nuova caccia. Sentirono delle urla e rumori fortissimi, e dalla finestra videro l’appartamento di fronte a casa loro, di Dodi Hadad, e un gruppo di arabi che gli intimavano di scendere. Una volta sceso per strada, iniziarono a picchiarlo. Allora, spaventata, disse a suo marito di nascondersi nella lavanderia sulla terrazza, sullo stesso piano dell’appartamento. Se fossero venuti a cercarlo, avrebbe potuto dire che non era in casa.
La terrazza fungeva da tetto del negozio di tappeti. Non appena i due uomini uscirono dall’appartamento Jasmine sentì bussare alla porta e dallo spioncino vide un gruppetto di persone, e alcuni soldati. In breve tempo il pianerottolo, siccome vivevano al primo piano, si riempì di gente, che saliva su dalle scale, e tra di loro vide anche un ufficiale. Dalla porta l’ufficiale chiese dov’era Giulio Hassan e lei rispose che non c’era, che non era in casa. Intanto anche per la strada si stava formando una folla che aspettava che l’ebreo scendesse per linciarlo. Permise solo all’ufficiale di entrare per controllare, ma prima gli chiese di scrivere un biglietto nel quale garantiva che sarebbe entrato da solo: egli lo fece e passò il biglietto sotto la porta. Lei lo fece entrare e accomodare. Lui vide i due bambini un po’ spaventati, le fece delle domande in generale, ma poi Jasmine chiese all’ufficiale che cosa volevano da loro. Avevano fatto una rivoluzione contro il regime per liberare il popolo, una cosa meravigliosa, ma perché prendersela adesso con gli ebrei, cosa c’entravano loro, erano cittadini libici, non avevano fatto niente. Dopo queste parole l’ufficiale chiese scusa per l’accanimento della folla, per ciò che era successo, si riprese il biglietto, salutò e se ne andò. Uscendo si rivolse alla folla sul pianerottolo e ordinò ai soldati che erano raggruppati ed alla folla di andare via tutti. Disse che poteva bastare. Fortunatamente se ne andarono. Ad un certo punto, dopo che se ne furono andati, vide Giulio che passava davanti a lei in direzione della porta spinto da 4-5 persone; erano quelli del negozio di tappeti, che erano entrati nella terrazza arrampicandosi dalla strada, lo avevano preso e lo stavano trascinando fuori dalla porta. Non capiva cosa stesse succedendo, inerme vide che lo spingevano fuori, potè solo affacciarsi alla finestra e vedere la folla inferocita che iniziò a picchiarlo. Lei gridava di lasciarlo stare e mentre urlava qualcuno dalla folla la vide, e iniziò a salire su per le scale per andare a prenderla. Così per la disperazione fece delle barricate con i divani e le poltrone contro la porta d’ingresso. La gente iniziò a battere sulla porta di legno per abbatterla, riuscendo a rompere un pezzo, cercando di togliere il catenaccio e dopo una lunga lotta ci riuscirono. Stavano per irrompere: in quel momento tirò fuori un coltello da cucina che aveva nascosto, pensando di ammazzare qualcuno prima che toccassero i suoi figli e venissero tutti massacrati. Vedendo il coltello nella sua mano per un attimo la folla indietreggiò ed uno di loro disse in arabo volgarità orrende. In quella frazione di secondo, si sentì per le scale una voce forte ed un uomo in italiano che ordinava: “Che fate, smettetela.”
Quell’uomo era un funzionario dell’ambasciata italiana, corso per salvarla, dopo aver ricevuto una telefonata da Italo Nemni, che abitava di fronte a casa loro e che vedendo ciò che stava succedendo, e sapendo che Giulio era italiano e anche sua madre, si era affrettato ad avvisarli. I facinorosi si allontanarono e la strada si liberò. In questa situazione Jasmine ha riconosciuto la mano di D.O che per mezzo di Italo Nemni le aveva salvato la vita. Dopo qualche ora, ritornò anche Giulio. Un soldato aveva sparato in aria disperdendo la folla e salvandolo dal linciaggio. La cosa che li sconvolse era di aver creduto che la rabbia degli arabi fosse finita nel ’67 con il pogrom. Si resero conto che l’odio per gli ebrei purtroppo non si era mai spento. E che in certi contesti continueranno sempre a cercare scuse, per sfogarlo.
Clicca qui per rivedere l’intervista
Clicca qui per leggere la prima parte
(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(7 febbraio 2022)