Il gran rifiuto
Abbiamo esaminato, nelle scorse puntate, il modo in cui Dante immagina e descrive, nell’Inferno, la sorte ultraterrena dei protagonisti del processo di Gesù. Ma, com’è noto, c’è un terzo protagonista, molto importante, che o non viene mai nominato, oppure, forse, è oggetto di menzione solo attraverso un’obliqua allusione. Ci riferiamo, naturalmente, a Ponzio Pilato, il governatore della Giudea, al quale gli ebrei avrebbero chiesto di portare ad esecuzione la condanna pronunciata dal Sinedrio, che lo stesso non avrebbe potuto autonomamente eseguire, dal momento che le leggi di Roma lo avrebbero impedito. Questa, come abbiamo già ricordato, è la giustificazione fornita nel Vangelo di Giovanni, che è stata sempre considerata un’incontestabile verità storica, accolta ancor oggi dalla larga maggioranza della storiografia. Ma il dato, in realtà, non è vero, in quanto agli ebrei, come alle altre popolazioni provinciali, i romani lasciarono, almeno in quel tempo, la possibilità di applicare autonomamente la propria giustizia, ovviamente quando non fossero coinvolti gli interessi di Roma o dei suoi cittadini. Il Sinedrio, se avesse davvero voluto giustiziare Gesù, non avrebbe avuto bisogno di rivolgersi al prefetto di Giudea. Ma si tratta, comunque, di una questione che non riguarda questo discorso, dal momento che Dante non si pose mai questa domanda.
Com’è noto, una volta varcata la porta della “città dolente”, ed essere entrato nel regno dell’“eterno dolore” (III. 1-2), il poeta viene subito posto davanti al supplizio riservato agli ignavi, “le anime triste di coloro/ che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”. Per loro, fa pronunciare a Virgilio la famosa frase di assoluto disprezzo: “non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (III. 51). L’esatto opposto dei sentimenti che il poeta apertamente manifesta per tante anime dannate (Francesca, Farinata, Cavalcante, Brunetto, Ulisse…), alle quali, pur riconoscendone la responsabilità sul piano del giudizio divino, riserva invece, sul piano umano, parole di accorata pietà e anche di alta ammirazione. Il girone degli ignavi è al di qua del fiume Acheronte, e quindi rappresenta una sorta di anticamera, il cosiddetto Antinferno, che ospita le anime delle persone che non trovarono il coraggio di prendere posizione e di fare le proprie scelte, rendendosi così “a Dio spiacenti e a’ nemici sui” (III. 63). La punizione a loro riservata è terribile: costretti a correre all’infinito dietro uno stendardo, “erano ignudi e stimolati molto/ da mosconi e da vespe ch’eran ivi./ Elle rigavan loro di sangue il volto,/ che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi/ da fastidiosi vermi era ricolto” (III. 65-69).
Potrebbe sorprendere tanta durezza, nei confronti di individui che non commisero veri e propri peccati, tanto più se si paragona la loro sorte con quella delle anime che si incontrano, nel Canto successivo, nel primo cerchio infernale, quello del Limbo, dove sono confinati gli spiriti di coloro che non ebbero la possibilità di conoscere la parola di Cristo, e che, per questo sono, sì, condannati, ma solo a vivere “sanza speme… in disio”. E anche la pena riservata, per esempio, nel quinto Canto, ai lussuriosi, trascinati in eterno da un vento tempestoso, senza mosconi, vespe e vermi, appare molto meno crudele. Ma Dante, com’è noto, nell’inventare premi e punizioni, si lascia molto condizionare, oltre che dalla sua fantasia creatrice, dal suo personale carattere. Egli era un uomo d’azione, coraggioso e coerente, che in vita sua fece sempre le sue scelte, pagandone direttamente le conseguenze. È comprensibile che gli ignavi meritino, ai suoi occhi, tanto disprezzo. È facile non incorrere in errori e peccati, se, nella vita, non si fa nulla di significativo. Dante non avrebbe mai condiviso la famosa frase manzoniana, secondo cui, se uno il coraggio non lo ha, non se lo può dare. Meno male, per Don Abbondio, non essere stato conosciuto dal poeta, altrimenti sappiamo dove sarebbe stato sistemato.
Dante riconosce uno solo degli ignavi tormentati: “l’ombra di colui/ che fece per viltade il gran rifiuto” (III. 59-60). Non c’è dubbio che l’allusione riguardi un personaggio reale, che doveva, secondo le intenzioni del poeta, essere facilmente riconosciuto. Di chi si tratta?
Com’è noto, la critica dantesca si divide, fondamentalmente, in due possibilità: alcuni pensano a Celestino V, che rifiutò il soglio pontificio che gli era stato assegnato; altri, invece, appunto, a Ponzio Pilato, che avrebbe rifiutato di pronunciarsi sulla colpevolezza di Gesù, abbandonandolo alla sua ingiusta (ancorché necessaria) sorte.
Quale delle due opzioni è quella giusta?
Diciamo, innanzitutto, che esistono ottime ragioni a favore di entrambe le identificazioni. Non c’è dubbio che il gesto di Celestino V, che suscitò grandissimo scalpore, dovette essere fortemente biasimato da Dante, soprattutto perché spianò la strada del papato all’odiatissimo Bonifacio VIII. E poco conta il fatto che il mancato papa ebbe fama di santità, e fu canonizzato nel 1313. Dante, nei suoi giudizi, è sempre libero e autonomo.
Ma anche il lavarsi le mani di Pilato, indubbiamente, appare come una scelta di ignavia, dalle enormi conseguenze, che Dante non poteva non condannare.
Se il poeta avesse fatto un riferimento allusivo a due anime, colpevoli di due “grandi rifiuti”, non ci sarebbero dubbi sul fatto che si tratterebbe, appunto, dei due personaggi, condannati a condividere insieme le conseguenze della loro viltà.
Una ragione molto consistente mi indurrebbe a identificare, nell’autore del “gran rifiuto”, proprio Pilato, ossia il fatto che la sua menzione, nella Commedia, diversamente da quella di Celestino V, sarebbe necessaria anche sul piano teologico, in quanto protagonista di quell’evento-chiave della storia terrena e divina, esattamente come la menzione di Giuda, Caifa e Anna.
Ma, invece, lascerei il posto a Celestino V, prendendo atto, quindi, che, nella Commedia, il nome di Ponzio Pilato è coperto da una coltre di totale, strano silenzio.
Cercherò di spiegare, mercoledì prossimo, il motivo di questa mia scelta.
Francesco Lucrezi
(9 febbraio 2022)