Il buon ricordo
A questo punto si impone qualche riflessione a margine di un Giorno del Ricordo trascorso per l’ennesima volta tra polemiche, accuse, accostamenti indebiti se non parificazioni insostenibili. Partendo dal riscontro che il fuoco del problema non è ciò che viene ricordato (e commemorato) ma il modo in cui lo si fa, trattandosi – in quest’ultima evenienza – di un esempio da manuale di uso politico del passato. Sia nella caso di quanti ne rimuovono o riducono l’impatto, arrivando a negare la rilevanza stessa dei fatti storici, sia invece tra coloro che enfatizzano oltre ogni limite le sue ricadute, quasi sempre rivendicando – in ragione di ciò – una sorta di diritto di rivalsa da esercitare nel presente. A tale riguardo, viene da dire che non esiste una «memoria condivisa». Si tratta di un ossimoro. La memoria, infatti, ha un valore fondamentale per chi di essa ne è latore, preservando aspetti insopprimibili della sua storia. Ciò avviene comunque, quando si tratti di una persona piuttosto che di un gruppo. Proprio per questo suo carattere peculiare, rivolto alla soggettività e alla conoscenza diretta, non è proponibile come una sorta di modello universale di riferimento. Semmai, guardando al passato, può essere la storia, al medesimo tempo come disciplina e sapere, a sforzarsi di cercare, sia pure tra molte mediazioni, un filo logico tra esperienze diverse. Così come la coesistenza di diverse memorie è – invece – il vero obiettivo che una società che si voglia pluralista dovrebbe per davvero darsi. Coesistenza non implica relativismo ed equivalenza etica dei racconti del passato, tanto meno nelle loro ricadute civili, bensì riconoscimento che possono determinarsi compresenze tra sguardi differenti rispetto a ciò che fu. Altro paio di maniche è invece il definire una gerarchia di significati morali, in base ai quali valutare l’importanza degli sguardi, ossia il modo in cui eventi comuni sono stati diversamente vissuti dai tanti protagonisti, in posizione distinte, nel mentre accadevano, e quindi interiorizzati come deposito indelebile della propria coscienza. In un tale contesto di riflessioni, quindi, men che meno si può parlare di «pacificazione» come se in Europa, e ancora di più in Italia, sussistesse un problema aperto, cioè quello di sommare e unire memorie non solo diverse ma opposte, nel tentativo di fonderle in un non meglio precisato calderone, grazie al quale i cittadini dovrebbero e potrebbero meglio intendersi tra di loro. Dietro a questo genere di costruzioni ideologiche (di ciò si tratta, non di altro), semmai avanza il fantasma delle parificazioni, quello per cui, equivalendosi i crimini da un punto di vista morale, ed essendo la storia recente costellata di molti eventi criminali, allora ognuno avrebbe qualcosa da farsi perdonare. Il reciproco inverso di questo cliché è che se tutti sono colpevoli di qualcosa, allora nessuno lo è fino in fondo. Una sorta di (auto)assoluzione collettiva che serve a ripescare, attraverso la finestra di servizio, ciò che è invece stato buttato fuori dalla porta principale. Le sgradevoli contese sul Giorno del Ricordo ci riconducono obbligatoriamente a questo orizzonte di pensieri. Per l’appunto, il problema non è solo cosa si ricorda ma il come lo si va facendo. Poiché memoria e ricordo possono essere fattori di costruzione di un tessuto di comunicazione civile così come, se altrimenti utilizzati, inneschi scatenanti della divisione, della polarizzazione, della radicalizzazione. In altre parole, della frantumazione del tessuto collettivo. Non è di certo un buon ricordo quello che si riduca al gioco delle competizioni con altre tragedie. Ma la questione, va da sé, non riguarda mai chi rammenta il passato in prima persona, chiamando semmai in causa colui o coloro che se ne fanno vessilliferi per un qualche disegno di parte. È in quest’ultimo passaggio, infatti, che si rinfocolano e alimentano le vere divisioni. Che fingono, invece, di proporsi come «pacificazioni», riabilitando ciò che la storia ha già condannato. Per l’appunto.
Claudio Vercelli
(13 febbraio 2022)