“La mia scultura che guarda il lago
per la Memoria e scuoterci dall’indifferenza”

Una grande testa senza occhi, orecchie, bocca. Vista da lontano, sembra un sasso.
Come quello “che fisicamente lanciai nel lago, quando arrivai a Meina e feci una ricognizione per capire qualcosa di più di questa storia e di questi luoghi”. Il suo modo per fare memoria dei sedici ebrei, in prevalenza originari di Salonicco e sfollati da Milano, i cui corpi furono zavorrati in quel fondale dai nazisti che prima li avevano imprigionati all’interno dell’hotel Meina dove alloggiavano e poi, dopo una settimana, tra il 22 e il 23 settembre 1943, uccisi. Il primo eccidio dall’inizio dell’occupazione.
Fu lì, racconta l’artista israeliano Ofer Lellouche a Pagine Ebraiche, “che maturò l’idea di una scultura che permettesse di riflettere sull’indicibile: l’orrore della Shoah”. E di farlo “in uno dei luoghi più incantevoli che abbia mai visitato: un contrasto fortissimo con la violenza che fu perpetrata allora”. Dopo una lunga serie di vicissitudini A head for Meina, la sua scultura, è stata inaugurata quest’oggi.
“Una giornata molto emozionante” dice l’artista, 74 anni, che all’inizio ha avuto più di un dubbio sull’opportunità di cimentarsi con questo progetto. “Il tema della Shoah mi sembrava troppo grande per me. A dire il vero – afferma – penso che lo sia per ogni artista”.
È seguito un periodo di elaborazione durante il quale ha realizzato “che la Shoah fa parte comunque del mio dna e di quello degli artisti israeliani della mia generazione: una rivelazione forte e terribile, ma che in qualche modo mi ha liberato dalla paura di dar vita a un monumento nella definizione classica di questa parola”.
Centinaia, spiega, gli schizzi preparatori. “Disegni, modelli, terrecotte. Alcuni apparivano più tormentati, altri ancora erano segnati dall’orrore, alla fine ho scelto un volto che trasmette comunque amore e speranza. Mi ha ispirato – ha detto – il ritratto di mia moglie”.
Una scultura per fare Memoria. E un monito, sottolinea, “contro i crimini che si commettono, in questo stesso momento, nel mondo”. Molte persone lo hanno spronato in questa missione. Tra le altre Lellouche ha ricordato Becky Behar Ottolenghi (1929-2009). Becky era figlia di Alberto, il proprietario dell’hotel Meina, che riuscì a salvarsi insieme ai suoi cari grazie all’intervento del console turco. Il suo diario resta ancora oggi una fondamentale testimonianza su quei giorni: “Era la camera 410, ultimo piano. Noi eravamo sei: i miei genitori, mia sorella, i miei fratelli. Ci spinsero dentro e c’erano altri sedici ospiti dell’albergo, sprangarono la porta con una sentinella dietro. Cedemmo i materassi agli anziani. C’era chi piangeva, chi pregava, i grandi provavano a farci coraggio. Fuori si sentivano urla, ordini, un gran via vai di tedeschi”. Conclude l’artista: “La Memoria non è qualcosa che attiene al solo passato, ma che deve spronarci a un impegno sostanziale verso il futuro. Spero che questa mia scultura silenziosa possa aiutarci a ragionare sul mondo che vogliamo e sui valori che dobbiamo difendere”.

(13 febbraio 2022)