Il senso di Levi per il cinema
La passione per il cinema è uno degli aspetti più nuovi e interessanti del lavoro di Carlo Levi messi in luce dalla mostra. Intellettuale multiforme, legato da amicizia a molti personaggi dello spettacolo, Levi, come del resto lo stesso Carlo Ludovico Ragghianti, intuisce con largo anticipo le immense potenzialità del linguaggio cinematografico. È l’incontro con Mario Soldati a procurargli, ventinovenne, un primo contatto con la Cines e poi con la Lux Film. Il presidente della società, Guido Pedrazzoni, gli offre un contratto come scenografo per Patatrac, una commedia brillante con regìa di Gennaro Righetti, uscita nel 1931, mentre di Ricordo d’infanzia, non andato in porto, resta soltanto la sceneggiatura.
Nell’estate del 1937 partecipa al Pietro Micca, diretto da Aldo Vergano, collaborando ai costumi. Il film è da considerarsi perduto, salvo un rullo di meno di cinque minuti conservato al Museo Nazionale del Cinema di Torino e una serie di bozzetti al Museo MAGI ’900 di Pieve di Cento.
Sarà con il film Il grido della terra (1949), sull’esodo dei profughi ebrei verso Israele, che si definirà meglio il suo contributo al cinema a soggetto. Diretto da Duilio Colletti, su sceneggiatura di Lewis Gittler, Carlo Levi e Alessandro Fersen, il film illumina la difficile transizione dei campi di concentramento fascisti a campi di raccolta e le operazioni dell’Aliyah Bet che dalle coste della Puglia traghetta i profughi ebrei, fra cui tanti sopravvissuti alla Shoah, nella Palestina mandataria. Realizzato dieci anni prima del più celebre Exodus, il lavoro affronta per la prima volta uno dei nodi più delicati del dopoguerra e lo racconta con un taglio neorealista attraverso il fil- tro di una storia d’amore. I tre autori conoscono di prima mano la realtà della persecuzione nazifascista e riversano quest’esperienza nel film. Come Carlo Levi, anche Alessandro Fersen, drammaturgo e uomo di teatro, è costretto alla fuga dalle leggi razziste e parteciperà alla Resistenza. Lewis Gittler, americano, discendente da una famiglia di rabbini e impresari della Slesia, è stato invece corrispondente di guerra per la rivista Life e nell’immediato dopoguerra ha raccolto numerose testimonianze di pro- fughi ebrei. Il film, interpretato da Marina Berti e Andrea Checchi, con costumi di Emanuele Luzzati, è prodotto dalla Lux film. Gli esterni ambientati in un centro abitato dell’allora Palestina sono girati nella città vecchia di Bari e a Mola di Bari dove nei mesi successivi alla fine della guerra si erano radunati molti profughi in attesa di partire per Eretz Israel. Una versione restaurata del film curata dalla Cineteca nazionale è stata presentata nel 2008 alla Mostra internazionale d’ar- te cinematografica di Venezia. Levi resta a lungo legato al mondo del cinema e la sua attività come documentarista è testimoniata soprattutto dai lavori che realizza a partire dagli anni Sessanta e hanno come tema la gente e la terra di Lucania, dove ha trascorso il confino.
Autore del celebre manifesto di Accattone di Pier Paolo Pasolini, dagli anni Cinquanta diventa a Roma un ritrattista di riferimento per molti personaggi del mondo di Cinecittà, da Anna Magnani a Silvana Mangano, da Pier Paolo Pasolini a Franco Citti. Questi dipinti sono presenti in mostra, insieme a quelli di Ragghianti, di loro comuni amici come Eugenio Montale e Carlo Emilio Gadda o di personaggi ammirati come Frank Lloyd Wright.
A coronare il legame di Levi con il cinema, nel 1979, quattro anni dopo la sua morte il suo romanzo Cristo si è fermato a Eboli è adattato per il grande schermo da Francesco Rosi. Al soggetto collaborano due autori di prestigio come Tonino Guerra e Raffaele La Capria. Nel ruolo di Carlo Levi, l’indimenticabile Gian Maria Volontè. Lea Massari è Luisa Levi mentre nel ruolo di Giulia spicca Irene Papas. Il rapporto con il cinema di Carlo Ludovico Ragghianti ha toni diversi e nasce dalla percezione di un’omogeneità di linguaggio con la pittura e resta ancorato alla dimensione critico-interpretativa. Convinto che il cinema possa accrescere le possibilità di indagine delle opere d’arte, fra gli anni Cinquanta e Sessanta realizza la maggior parte dei suoi ventuno “critofilm” (un termine che lui spesso conia) in special modo i diciotto della ‘seleArte cinematografica’, prodotti con il supporto di Adriano Olivetti. I critofilm sono esempi significativi del documentario sull’arte. Ognuno di essi è portatore, secondo le parole dello stesso Ragghianti, di una “critica d’arte (penetrazione, interpretazione, ricostruzione del processo proprio dell’opera d’arte o dell’artista) realizzata con mezzi cinematografici, anziché con parole”. In questi filmati Ragghianti usa la cinepresa come strumento d’indagine e per contestualizzare l’opera d’arte e restituirne i percorsi visivi e formali ricorre a riprese molto avanzate per i tempi – dal cinescopio alle vedute aeree.
“La ripresa – scrive dovrà essere, come la critica, obbediente all’espressione formale così come essa si è esclusivamente configurata”. “Occorre perciò riporsi nella maniera più vicina possibile nella situazione dell’artista operante, e direi quasi rifare il suo gesto, ricondursi alle visuali che ha tracciato ed imposto per la visione ed il gusto, seguire le sue scelte del punto o dei punti di vista, del vincolo statico o dal tracciato dinamico delle visuali, sia univoche che molteplici, sia staccate che legate, sia ferme che in movimento, sia attiranti od avviluppanti, che emananti o centrifughe, e così via”. Il primo dei critofilm, visionabili su appuntamento, risale al 1948 ed è dedicato alla Deposizione di Raffaello.
Daniela Gross, Pagine Ebraiche Febbraio 2022
(Nell’immagine, Marina Berti e Andrea Checchi in una scena Il grido della terra)