Periscopio – Il silenzio voluto

Abbiamo affrontato, nella scorsa puntata, la questione dell’identificazione del personaggio misterioso a cui Dante allude, nel terzo Canto dell’Inferno, quando afferma di riconoscere, nella schiera degli ignavi, l’ombra di colui “che fece per viltade il gran rifiuto” (III. 60). Un dubbio che da sempre divide la critica dantesca, nettamente scissa in due opposte fazioni, per una delle quali l’allusione sarebbe a Ponzio Pilato, per l’altra a Celestino V. Entrambi, secondo Dante, autori di un “gran rifiuto” (rispettivamente, di fronte alla scelta di giudicare Gesù e alla responsabilità di accettare la dignità del soglio pontificio), ed entrambi, perciò, ai suoi occhi, vili.
A mio avviso, per pronunciarsi in merito, occorre preliminarmente considerare quali sono i criteri di selezione secondo i quali il poeta ha scelto di inserire, nel poema, determinati personaggi, e di escluderne invece altri. Accanto alle centinaia di nomi presenti, infatti, se ne potrebbero fare migliaia che pure, per tante ragioni, avrebbero potuto essere inclusi, e che invece non compaiono.
Al riguardo, va tenuto presente che, la Commedia è un’opera dalla duplice natura, poetica e teologica (Dante stesso, com’è noto, la chiama “poema sacro”: Par. XXV.1). E se il poeta si sentiva libero, ovviamente, di operare le sue scelte sul piano poetico, tale libertà era però notevolmente ridotta su quello teologico, sul quale non poteva non sentirsi vincolato a interpretare (sia pure in modo personale) il castello di verità dogmatiche di quella fede che, per lui, era “principio a la via di salvazione” (Inf. II. 30). Se, dunque, è del tutto lecito immaginare una Commedia priva, per esempio, di Pia dei Tolomei, di Manfredi, di Ciacco, di Catone, di Lucrezia e di tanti altri, così come un poema in cui compaiano, invece, per esempio, Ramsete, Ciro, Silla, Scipione, i fratelli Gracchi ecc., è del tutto impossibile pensare a un poema in cui non vengano menzionati Gesù, Maria, o San Francesco o San Tommaso. Che poema sacro sarebbe stato? E, allo stesso modo, la menzione di Giuda, Caifa, Anna e del Sinedrio non appare frutto di una libera scelta poetica, ma di un preciso obbligo teologico. Sono loro i protagonisti della vicenda che è al centro assoluto della storia terrena e celeste.
Ma anche Pilato lo è, anch’egli avrebbe dovuto essere menzionato. È lui, dunque, l’artefice del “gran rifiuto”?
Secondo me, no, e ne spiego la ragione.
Il fatto che la morte di Gesù, secondo la visione teologica cristiana, fatta propria da Dante, fosse un evento necessario, non attenua, secondo l’ottica medievale e dantesca, la responsabilità, come abbiamo visto, di coloro che la determinarono. Per quel che riguarda, specificamente, la presunta colpa collettiva dell’intero popolo ebraico, essa è condivisa dal poeta, come abbiano detto, esclusivamente su un piano storico, non ultraterreno. Ciò significa che la distruzione di Gerusalemme, come “vendetta de la vendetta”, ha esaurito la funzione ‘vendicatrice’, cosicché gli ebrei delle generazioni successive sono mondi da colpa (tanto che, come abbiamo visto, Dante non chiude per loro le porte del Paradiso). Se, come abbiamo detto, la posizione di Dante, sul punto, può apparire antisemita, si tratta di un antisemitismo “freddo”, che rispecchia una comune credenza del tempo (quella della punizione collettiva dell’intero Israele), senza compiacimento e partecipazione emotiva (e, forse, anche senza intima convinzione). Diversa, ovviamente, la condizione di Caifa, Anna e degli altri giudici del Sinedrio che condannarono Gesù, pur (secondo l’idea del poeta) sapendolo innocente. Per loro l’inevitabile condanna è eterna, ma è a titolo individuale (come sempre avviene nella Commedia).
Rispetto all’impero romano, nella visione del poeta, su di esso non può gravare alcuna responsabilità, in quanto strumento diretto della volontà di Dio, volta a realizzare sulla terra una perfetta monarchia universale, funzionale all’affermazione, totale e definitiva, della verità della fede cristiana. Ciò è espresso in modo chiarissimo nel discorso di Giustiniano del sesto Canto del Paradiso, che sintetizza la marcia trionfale dell’aquila di Roma come un luminoso percorso di gloria e giustizia, che non può conoscere pause o errori. Di questo percorso Ponzio Pilato è parte integrante: egli era il legittimo rappresentante dell’autorità di Roma, la cui legge egli era chiamato ad applicare.
E la patristica, che Dante accoglie e rispetta, non gli attribuisce alcuna colpa. Il Credo niceno recita che Gesù patì “sotto Ponzio Pilato”, non “ad opera di Ponzio Pilato”. Vero è che, sul governatore di Giudea, si sono formate diverse e contrastanti visioni: nella Chiesa copta, per esempio, è diventato un santo, in quanto “iam pro coscientia Christianus”, mentre un’antica leggenda cristiana lo vuole morto con l’atroce supplizio del culleus, riservato ai parricidi (condannati a morire affogati in un sacco, insieme a un cane, un gallo, una vipera e una scimmia), in quanto assassino del padre di tutta l’umanità. Ma Dante preferisce non aderire a nessuna di queste narrazioni, restando nel solco della consolidata tradizione cattolica, che al personaggio attribuisce un ruolo “neutro” e “passivo”, di mera indicazione storica.
Precipitare Pilato nel girone degli ipocriti, accanto a Caifa e Anna, o tra gli ignavi dell’Antinferno, avrebbe voluto dire considerarlo un anello difettoso della catena dorata della storia dell’aquila, e ciò avrebbe gettato un’ombra sulla gloria di Roma, proprio in quello che appariva il momento più importante della storia di tutti i tempi. Metterlo in Paradiso sarebbe stato imbarazzante, e i vili non meritano il Purgatorio.
Meglio, quindi, “uscire dall’angolo”, lasciando il governatore fuori dalla Commedia, fuori da tutto. Il “gran rifiuto” non è il suo, ma quello di Celestino V.
Un’omissione, certamente, che non può essere considerata una dimenticanza, ma un silenzio voluto.

Francesco Lucrezi