Segnalibro – Trauma della Shoah,
ebraismo e psicoanalisi

Il libro di Alberto Sonnino Trauma della Shoah, ebraismo e psicoanalisi (2022) è un testo di grandissimo interesse per la profondità dei temi trattati e nell’accostare elementi comuni tra la trasmissione dell’ebraismo nel corso dei millenni e la trasmissione della psicoanalisi nata poco più di un secolo fa. Tale accostamento è un filo conduttore centrale che si intreccia insieme ad un altro filo essenziale riguardante l’utilizzo del vertice psicoanalitico per comprendere il trauma della Shoah e la sua elaborazione – sempre che ciò sia possibile – dopo lo sterminio di sei milioni di ebrei.
Alberto Sonnino, nel trattare il trauma collettivo, e nello specifico il trauma della Shoah, fa un accostamento, pur con le necessarie differenze, ai traumi individuali e ricorda che Freud in Introduzione alla Psicoanalisi scrive: “La fantasia della seduzione fin troppo spesso non è una fantasia bensì un ricordo reale” (1915-7, 18) riferendosi al fatto che gli abusi sul bambino non sono sempre fantasie ma anche realtà fattuali.
Con questa puntualizzazione teorica Freud dimostra una grande capacità e disponibilità a rivedere il suo stesso pensiero poiché in precedenza aveva teorizzato che i ricordi di eventi sessuali nel bambino e nell’adolescente fossero in genere da considerarsi come fantasie; Freud riconosce infatti, anche accogliendo la teoria di Sandor Ferenczi, altro grande pioniere della psicoanalisi, che un soggetto possa aver subito realmente un trauma; questo significa per il paziente traumatizzato essere creduto nella sua verità biografica e non trattato come un soggetto in preda a fantasticherie.
A quell’epoca – siamo ancora tra il 1910 ed il 1920 circa – poter considerare le comunicazioni del paziente come espressione di una verità della propria storia e non come semplici fantasie ha significato un riposizionamento e un allargamento della teoria e della clinica psicoanalitica: per l’analista non è sufficiente, anzi potrebbe essere controproducente utilizzare quel classico strumento fondante la tecnica psicoanalitica che è l’interpretazione dei meccanismi inconsci che si rivelano attraverso sogni, fantasie, libertà espressiva ma deve fare perno anche su altre funzioni specifiche; una di queste funzioni è quella di testimonianza recettiva (Jaffè, 2007, 2010 di quanto il paziente ha subito con un ascolto partecipe, sentito, condiviso empaticamente, una verità vissuta, insostituibile, esperita direttamente sulla propria pelle.
Se dalla stanza di analisi passiamo ai traumi collettivi e in particolare alla Shoah, mi viene da ricordare quanto scrive Goldkorn quando afferma di “non trasformare la Shoah in una metanarrazione morale e simbolica priva di carnalità e concretezza” (Goldkorn, 2006, 71).
Credo che Sonnino, sia per quanto riguarda il suo lavoro con i pazienti che per quanto riguarda le sue riflessioni sulla Shoah, vada in questa direzione, che è il vedere le cose per quelle che sono nella loro verità storica individuale e collettiva, dando ampio risalto al senso di responsabilità etica, che come afferma la psicoanalista israeliana Viviane Chetrit-Vatine, il linea con il pensiero di Levinas (1948, 1971) significa il “mantenimento di un funzionamento di responsabilità per l’altro” (Chetrit-Vatine, 2012); per un analista corrisponde al rendersi recettivo ad un ascolto profondo del male, immergendosi nelle sue oscurità senza per questo farsene contagiare, in modo da poter operare un lavoro di elaborazione psichica sul senso della violenza e della distruttività.
Il rapporto tra male e bene è un’altra questione fondamentale affrontata nel volume di Sonnino. Così come nella tradizione ebraica – scrive Sonnino – “l’istinto del male è conside rato più precoce dell’istinto del bene” (Sonnino, 2022, 64) anche per Freud “l’odio come relazione nei confronti dell’oggetto, è più antico dell’amore”; (Freud,1915, 34); è fuorviante credere che il male, l’odio, la violenza e la distruttività non appartengano alla natura umana e l’unica strada percorribile per non agire, è esserne consapevoli, riconoscerli dentro di sé ed integrarli accanto al bene e all’amore: come scrive Martin Buber “compito dell’uomo non è quindi estirpare da sé l’istinto cattivo, ma ricongiungerlo a quello buono” (1965,79).
In analisi, e qui riprendo il volume di M. Buber Colpa e sensi di colpa (1957) non si tratta di liberare il paziente dal senso di colpa azzerandone le sue responsabilità, o al contrario con l’intento di penalizzare il paziente, quanto piuttosto di condurre il paziente a riconoscere e quindi a prendersi cura dei suoi aspetti aggressivi nella prospettiva di una riconciliazione con se stesso e con l’altro ovvero trasformare l’angoscia della colpa in una riflessione consapevole sulla propria violenza e cattiveria umana.
Questo lavoro di analisi avviene attraverso norme rigorose del dispositivo analitico che nell’insieme formano un setting e nel rispetto di un metodo che, pur consolidato, è sottoposto a continue verifiche teoriche e cliniche; questo riferimento alle norme e al metodo richiama, anche se con le debite variazioni, a quel richiamo sull’osservanza e sulle norme comportamentali iscritte nelle mitzvoth, nella lettura della Torah, nella recita delle preghiere che fanno riflettere l’uomo sulla propria natura, sulle proprie responsabilità, e sulla colpa che l’ebreo “deve affrontare al proprio interno, in totale autonomia e solitudine…poiché non ci si può avvalere di una figura reale e concreta” (Sonnino, ibid, 52); è una sorta di educazione e anche di inclinazione ad un monologo interiore che si trasmette da una generazione all’altra, dai genitori ai figli, dai maestri agli allievi, nella capacità di affrontare dentro sé stessi il rapporto tra bene e male: un’attenzione dell’ebreo verso il proprio mondo interno che è anche il focus e la prospettiva cui tende il lavoro psicoanalitico.
Questa trasmissione generazionale si fonda sul biblico Zakhor-ricorda, tenendo conto che ogni evento passato individuale o collettivo ha un senso se è ri-attualizzato nel presente; il tema del ricordo è centrale nell’ebraismo ed è uno dei fondamenti del dispositivo psicoanalitico. La memoria è quella che attraversa lacerazioni, emozioni, dolori, affetti, un luogo vissuto nell’eterno presente, è attraverso la memoria sul passato che si può progettare e ricreare in senso generativo un futuro; è attraverso il ricordo che si può ricostruire la propria storia personale, familiare, sociale per raggiungere l’origine dei nuclei patogeni e traumatici e da qui dare origine ad un cambiamento della propria vita psichica, personale e relazionale; secondo la teoria freudiana sul concetto di atemporalità dell’inconscio, passato, presente e futuro possono coesistere contemporaneamente in un continuo andirivieni temporale a meno che non si privilegia la pericolosa strada dell’oblio, quell’oblio – afferma Ricoeur – “che si articola tra l’oblio inesorabile e l’oblio dell’immemorabile” (Ricoeur, 2004,99) che, oltre ad impedire il richiamo dei ricordi cancella il sigillo, l’originario stesso del ricordo con l’esito dell’incenerimento e della polverizzazione. Se così fosse quale progetto possibile per il futuro? A mio avviso nessuno.
E qui entriamo nel secondo filo conduttore di questo libro riguardante la memoria e la trasmissione della Shoah.
Sonnino pone molte questioni relative alle ragioni del negazionismo, dell’indifferenza, dell’incredulità che conducono al cancellare quanto è accaduto: Danieli ed altri hanno definito questo fenomeno patogeno come “la cospirazione del silenzio” ovvero un involontario “accordo tra chi – i sopravvissuti – non riusciva ad esprimere un vissuto così profondamente doloroso e chi ancora non era pronto per ascoltare” (Danieli, 1998) e che scientemente non voleva ascoltare.
Molto è stato scritto in questi anni sulle ragioni per cui i sopravvissuti non hanno parlato fino agli anni 80-90 e non mi dilungo su questo tema che ben conosciamo ma Sonnino aggiunge una riflessione molto importante. Il silenzio dei sopravvissuti non si può solo ascrivere alla indicibilità del trauma che ha determinato la paralisi delle emozioni, della parola e della comunicazione ma anche al fatto che “mancasse un contenitore adeguato in grado di accogliere la consegna della propria memoria (lasciando)… i sopravvissuti soli con le loro esperienze” (Boheleber, 2010, 112-113) come ha affermato l’ex Presidente della Società Psicoanalitica Tedesca, Boheleber. Molto dolorosa e pertinente è la domanda posta da Wiesenthal: “Davvero erano stati soltanto i nazisti a portarci a questa orrenda sciagura? Oppure anche tutti gli altri che stavano a guardare tranquilli e senza protestare le umiliazioni che ci infliggevano?” (Wiesenthal,1970, 60).
Se ci sono volute due generazioni perché incominciasse a cadere la rimozione, l’indifferenza e la pseudo-incrudelità ora siamo arrivati a quella dolorosa e fisiologica linea di demarcazione in cui gli ultimi sopravvissuti ci stanno lasciando e la nostra generazione ha il compito di trasmettere alle generazioni future quanto è accaduto avendo in mente l’ammonizione di Primo Levi “è avvenuto, quindi può accadere di nuovo… l’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea alle nuove generazioni dell’occidente e sempre più estranea si sta facendo a mano a mano che passano gli anni…per i giovani di questi anni 80, sono cose dei loro nonni, lontane, sfumate, storiche” (Levi, 1986, 163-4). Vanno sottolineate due parole chiave: estraneità e storico come a pericolosamente indicare qualcosa di falsamente lontano, in un altrove temporale ed in luogo alieno come se non avesse più nulla a che fare con l’uomo di oggi.
Ed anche se le generazioni odierne sono disposte a riconoscere che il nazismo ha realizzato una tragedia indecidibile teniamo conto che questo riconoscimento non sarebbe sufficiente se non consideriamo il presente: l’ammissione delle enormi responsabilità degli aguzzini sono fondamentali ma diverrebbero riduttive se si tende a spostare indietro questioni che riguardano la nostra generazione e la collettività nel suo insieme.
Freud in il Disagio della civiltà (1929) ricorda che i gruppi si possono ammalare e contagiare di violenza e distruttività e diventa difficile accorgersi dello stato patologico nel quale si è immersi; si può tutti divenire complici, tolleranti e silenziosi assuefatti alla banalità del male.
La collettività si coagula intorno a un leader o a un’idea leader che incarna la violenza e la distruttività del gruppo, come è stata l’ideologia della purezza razziale nazista e di tante ideologie attuali che pretendono di fornire alla massa l’illusione di un senso di grandiosità e di onnipotenza che possa anche espandersi ed attirare soggetti tendenti ad un pensiero inerte, passivo e adattativo.
Si tratta di un “contagio radioattivo” scrive l’analista israeliana Yolanda Gampel (141, 2001) per cui il male “entra dentro l’apparato psichico del soggetto senza che questi abbia alcun controllo sulla sua inoculazione, sul suo innesto e su quelli che saranno gli effetti” (ibid), una peste radioattiva dai connotati mortiferi che si trasmette da un soggetto all’altro, da un gruppo all’altro. L’identificazione radioattiva e vampirizzante che può propagarsi rapidamente in senso sincronico si può coniugare con le “identificazioni trans generazionali” (Faimberg, 77, 1993): se applichiamo questo crocevia identificatorio al sistema della violenza possiamo, in parte, comprendere le ragioni per cui questo vulnus si propaga da una generazione all’altra, investendo contemporaneamente in modo rapido sempre più ampie aree sociali, soprattutto oggi, attraverso la comunicazione mediatica.
Questo è il motivo per cui è necessario essere osservatori e testimoni attenti di quanto accade oggi e questo libro di Sonnino è oltre che profondo anche necessario.
La capacità di sopravvivere e di riprendere la vita negli ebrei è stata resa possibile “dall’Introiezione – scrive Sonnino, degli oggetti resilienti quale lascito ereditario transgenerazionale, insieme all’identificazione con la propria storia” (Sonnino,ibid, 70) fondata sull’etica, sulla specificità identitaria, sulla fede, sul comportamento; l’insieme di questi elementi hanno consentito una spinta alla nascita, alla rinascita e al ritrovamento della propria creatività individuale, di famiglia e del gruppo allargato, pilastri fondamentali e solidi per affrontare le insidie ancora presenti nella contemporaneità, nonostante quanto sia accaduto e su cui non è stata fatta ancora una sufficiente elaborazione da parte dei figli e dei nipoti che hanno commesso un male infinito.

Ronny Jaffè

Bibliografia

Bohleber W. Identità, trauma e ideologia” Astrolabio Roma 2010

Buber M. (1957) Colpa e sensi di colpa Apogeo Milano 2008

Buber. M. (1965) Immagini del bene e del male Ed. Comunità Milano 1965

Chetrit-Vatine V (2012) La seduction éthique de la situation analytique P.U.F. Paris 2012

Danieli Y. (1984) Psychoterapists’ partecipation in the conspiracy of silence about the Holocaust Psychoanalytic Psychology 1

Faimberg H.(1993) Trasmissione della vita psichica Borla Roma 1995

Freud S. (1915-1917) Introduzione alla psicoanalisi OSF 8 1976

Freud S. (1915) Pulsioni e loro destini in Metapsicologia OSF 8 1976

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Gampel Y. (2001) Group Psychology, Society and Masses: working with Victims of Social Violence (a cura di Spector Person E.) On Freud’s Group Psychology

Goldkorn W. (2006) La scelta di Abramo Bollati Boringhieri Torino 2006
Jaffè R. presentazione a Pensare l’impensabile (a cura di Diena S. Egidi Morpurgo V. Ferrata A. in Rivista di Psicoanalisi n 2 2007

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Levi P. (1986) I sommersi e i salvati Einaudi Torino 1986

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Levinas E. (1971) Totalità ed infinito Jaca Book Milano 2016

Ricoeur P. (1998) Ricordare, diemnticare, perdonare. L’enigma del passato. Bologna Il Mulino 2004

Sonnino A. (2022) Trauma della Shoah, ebraismo e psicoanalisi Angeli Milano 2022

Wiesenthal S. Il girasole Garzanti Milano 1970