L’intervento – La forza della chiave
La Corte Costituzionale ha respinto come inammissibile la proposta di referendum per la legalizzazione dell’eutanasia. Secondo i giudici essa non avrebbe garantito il principio di tutela della vita, soprattutto nei confronti di minori e deboli, sancito dalla nostra Costituzione. A caldo un politico ha commentato che comunque la si pensi un no del genere provoca tristezza. Ritengo piuttosto che la sentenza in questione debba stimolare ulteriormente la riflessione su una materia che giustamente è stata definita divisiva.
Mi sono già occupato di questo tema affrontando il punto di vista ebraico su queste pagine alcuni mesi fa. Allora parlai di halakhah. Ora mi occuperò di aggadah. È scritto nel Talmud: “Diceva R. Yochanan: tre chiavi si trovano nelle mani del S.B. che Egli non ha voluto fossero consegnate a nessun delegato: la chiave delle piogge, la chiave della partoriente e la chiave della Risurrezione dei morti” (Ta’anit 2b). I commenti obiettano che non è del tutto vero: c’è almeno un caso in cui ciò è avvenuto, con Eliahu ha-Navì. Dobbiamo pertanto ridimensionare l’affermazione e dire che le chiavi in questione non furono mai date tutte tre assieme alla stessa persona (Rashì), ovvero non furono mai consegnate ad altri in via definitiva (Tossafot).
Qual è il caso? L’episodio è narrato in 1Re, capitolo 17. Il Profeta Elia rispose alla sfida del malvagio re Achav, che con la sua politica idolatrica aveva diffuso il culto del ba’al in Terra d’Israel, applicando alla lettera quanto è scritto nello Shemà’: annunciò che avrebbe fermato la pioggia e la rugiada fino a nuovo termine “in base alla mia parola”. Eliahu dovette allora sfuggire alla rappresaglia del re. Inizialmente D. stesso gli indicò un nascondiglio sul fiume Kerit, dove fu nutrito dai corvi. Poi il fiume si prosciugò e non essendovi pioggia H. incaricò una vedova di Tzarefat di sostentarlo con i pochi mezzi di cui disponeva. Ma di lì a poco il figlio della donna si ammalò gravemente e morì. Essa protestò con l’illustre ospite: “Sei forse venuto in casa mia per seminarvi la morte? Risuscita mio figlio!”. Eliahu si coricò sul corpo del bimbo per tre volte e pregò H. “che possa la sua anima ritornare nel corpicino e rivivere”. Così accadde. Erano trascorsi due anni di siccità. H. disse allora a Eliahu di tornare dal re Achav: “darò pioggia sulla terra” (18, 1).
I commentatori si domandano cosa c’entra il ritorno della pioggia con la risurrezione del bambino. Alcuni dicono che i Figli d’Israel avevano fatto Teshuvah nel frattempo, ovvero che non tutti erano idolatri (Radaq). Ma il Talmud (Sanhedrin 113a) dà una spiegazione diversa. Eliahu si era in precedenza servito della chiave delle piogge per bloccarle. Se ora chiedeva di servirsi anche di quella della risurrezione a favore del bimbo avrebbe dovuto rimettere la prima e rinunciare al decreto sulla siccità. Non è ammissibile che il discepolo (Elia) disponga di ben due delle tre chiavi di cui parla R. Yochanan, mentre solo la terza rimane presso il Maestro (D.)!
R. Ya’aqov Ettlinger, un importante rabbino tedesco dell’Ottocento, rivisita l’argomento in un suo Responso (Binyan Tziyon, n. 26) e sostiene che l’obiezione di Rashì e Tossafot al detto di R. Yochanan non è giustificata. Eliahu ha-Navì non costituisce eccezione, perché non è stato in realtà lui né a ridar vita al bambino, né a ridare la pioggia alla terra. A ben vedere, in quest’ultimo caso D. non gli dice “darai pioggia”, bensì “darò pioggia” e anche la risurrezione del bimbo è opera Divina: il Profeta si limitò a chiederla. Come conciliare allora con il detto di R. Yochanan il fatto che fosse stato proprio Eliahu a bloccare inizialmente la pioggia?
R. Ettlinger fa una puntualizzazione linguistica. Nelle lingue occidentali a partire dal greco e dal latino clavis è etimologicamente connessa con il verbo claudo, “chiudere”. La chiave serve a sbarrare la strada, a impedire un ingresso. In ebraico è tutto l’opposto. Chiave si dice maftèach, dalla radice del verbo patàch, “aprire”. La chiave serve ad aprire qualcosa che inizialmente si presentava invalicabile. Finché si era trattato di chiudere il rubinetto della pioggia, argomenta R. Ettlinger, Eliahu aveva dotazione della chiave. Quando si trattò di riaprire, la chiave poteva essere adoperata solo da D. Eliahu, commenta il Talmud, si era trovato nella situazione di chi dopo aver chiuso la porta a chiave ha smarrito la sua copia.
Il problema filologico è in realtà filosofico. In cosa consiste la forza della chiave? Si può argomentare che essa serve a chiudere, per impedire effrazioni dentro la casa. È ciò che implica la linguistica occidentale. Ma è anche ciò che di fatto argomentano i sostenitori dell’eutanasia: siamo in possesso di una chiave che “chiude” l’ammalato rispetto a ulteriori sofferenze. La mentalità ebraica è differente. Nel misurare la chiave non guardiamo alla sua forza di chiusura, ma a quella della successiva riapertura.
Se anche infatti proteggiamo la casa da eventuali ladri ma quando poi vogliamo rientrarvi non siamo più affatto in grado di riaprirla e di tornare a viverci abbiamo perso tutto: meglio dunque un bene esposto a rischi, di cui tuttavia possiamo disporre, di un tesoro magari protetto ma definitivamente inaccessibile.
Per la tradizione nostra la vita è comunque un bene unico da preservare: senza se e senza ma.
Rav Alberto Moshe Somekh
(17 febbraio 2022)