Machshevet Israel
Torà u-madda‘
Il binomio Torà u-madda‘ è il motto valoriale e programmatico della Yeshiva University, l’università della corrente modern-orthodox del giudaismo contemporaneo, il cui leader nella seconda metà del XX secolo è stato rav Joseph B. Soloveitchik. Se il primo termine, Torà, è chiaro e rimanda a tutte le discipline strettamente connesse con lo studio della tradizione ebraica, halakhà in primis, assai meno definito e definibile è il secondo termine, madda’, proveniente da una radice che indica genericamente ‘conoscere’. Oggi tale parola indica, appunto in generale, lo studio di materie non ebraiche (secular, dicono oltre Atlantico), ma quali in particolare il termine non dice. Intuitivamente matematica e biologia sono secular, ma lo sono anche la storia e il diritto? E la letteratura? E filosofia e arte? Le scienze esatte e tecniche fanno meno problema, perché meno permeabili ad hashqafot o visioni del mondo diverse da quella ebraica. Il binomio resta comunque chiaro: si tratta di abbinare la studio delle fonti del giudaismo con una vasta conoscenza della cultura occidentale, specie (se in diapora) della cultura dei popoli tra i quali si vive.
Resta la questione di definire cosa sia madda‘. Se nel Rambam poteva significare ancora un sapere fondativo, filosofico, e la connessa metodologia capace di discernere il vero dal falso e il giusto dall’erroneo, con l’età moderna quella conoscenza generale si è affinata diventando via via un approccio sempre più metodico-quantitativo al mondo, divenendo scienza nel senso più contemporaneo del termine, scienza sia teorica sia applicata cioè tecnologia. Ora, lo scarto tra conoscenza del mondo secondo le fonti ebraiche classiche e approccio scientifico degli ultimi tre secoli si è fatto più profondo. Solo se si misura la profondità di tale gap si coglie la vera posta in gioco del motto della Yeshiva University (in se stessa un binomio ancor oggi contestato da molti charedim: o si va in yeshivà o si va all’università, tertium non datur; invece, tertium datur, e ben prima che fosse fondata la YU in ‘risposta’ all’Hebrew Union College di Cincinnati e al Jewish Theological Seminary di New York). Sulla saggezza, e l’utilità, di unire studi rabbinici e studi profani l’ebraismo italiano ha molto da insegnare.
In questi giorni è stato reso pubblico il nutrito programma di test scientifici connessi all’arrivo del pilota-scienziato-astronauta Eytan Stibbe a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, test promossi dall’Agenzia Spaziale Israeliana. Si tratta certamente di un’espansione della madda‘. Ma conciliabile con un approccio religioso? Solo trent’anni fa rav Elazar Shach, mitnaghed lituano, leader della yeshivà di Ponevezh, ‘proibiva’ i viaggi spaziali sulla base del salmo 115: “I cieli sono riservati a Dio, mentre la terra è stata data all’uomo”. Così, alla lettera, un versetto che invece il rebbe di Lubavitch Menachem Mendel Schneerson – che aveva studiato scienze politecniche – interpreteva come richiamo al dovere di cercare Dio anche nei recessi più infimi, terrestri, della materia. Certo, il problema di combinare Torà e scienza non è un ‘se’ ma un ‘come’: quando e quanto i risultati del progresso scientifico debbano influenzare ed essere ‘accolti’ nell’halakhà. Altro esempio: la scienza medica ha accertato i danni alla salute procurati dal fumare e dato che l’halakhà intende proteggere la salute (la vita) di ciascun individuo, fu chiesto esplicitamente a rav Haim David Halevi, un allievo di rav Ben-Zion Uziel, se fumare fosse consentito dall’halakhà. Il responsum fu una proibizione, contro le decisioni di numerosi maestri che lo avevano permesso: il mutamento halakhico era giustificato dal fatto che in passato i maestri non avevano a disposizione i dato scientifici che mostrano i danni del fumo sulla salute umana (cfr. Shlomo Brody, A Guide to the Complex: Contemporary Halakhic Debates, 2014).
Se da un’azione semplice come il fumare una sigaretta o la pipa (molti rebbe chassidici amavano fumare la pipa!) si passa a questioni più complesse, come la teoria darwiniana dell’evoluzione o come la datazione del mondo – della terra o dell’universo – la conciliazione tra hashqafà ebraica tradizionale e scienza si complica. È nota la fantasiosa spiegazione del rebbe di Lubavitch all’esistenza dei fossili: Dio seimila anni fa può ben averli creati già vecchi di molti milioni di anni… Ma a questo punto il binomio non è più Torà u-madda‘, piuttosto emunà u-madda‘, fede e approccio scientifico. Tempo fa, in una bella lezione su “Dove va il sole di notte?” ossia sulla cosmologia talmudica al vaglio della rivoluzione copernicana, rav David Gianfranco Di Segni ricordava come l’astronomo ebreo David Gans, allievo di rav Moshe Isserles, definisse Copernico un chakham, mentre l’averroista Elia Del Medigo, autore del Sefer Elim (1629), onorò Galileo con il titolo di rabbi. Un secolo dopo il medico e halakhista Isacco Lampronti, in nome della scienza – a cui dava voce lo scienziato Francesco Redi – si espresse contro l’uccisione dei pidocchi di shabbat (contrariando il proprio maestro, rav Yehuda Briel) permessa invece dalla tradizione rabbinica in nome della teoria della generazione spontanea di quei fastidiosi animaletti. Il punto è sempre: cosa è madda‘ oggi e quanto peso deve avere nel processo di elaborazione della machshavà e della prassi ebraiche?
Massimo Giuliani, università di Trento
(16 febbraio 2022)