Sette riflessioni
L’amico Alberto Cavaglion nel suo ultimo ticketless ritorna sui temi (e i problemi) sollevati dal Giorno del Ricordo, ovvero soprattutto dal suo uso pubblico (se in tali termini ci si può riferire rimandando ad una ricorrenza del calendario civile), spesso assai discutibile. Articola in sette passaggi “qualche osservazione sparsa”, trovandomi in sostanziale accordo.
Quest’anno le polemiche, tanto stanche quanto basate su un’inesorabile inerzia, dove la ripetitività dei cliché è l’anima della manipolazione, hanno veramente toccato il fondo. Chi segue per tutto l’anno le traiettorie di certe contrapposizioni non ne è rimasto sorpreso. Rimane il fatto che la consapevolezza preventiva di certe cose non costituisca un mezzo gaudio e ancora meno un risarcimento, neanche parziale.
Ritorno quindi ai sette transiti, quasi per il gusto di chiosarli con intima amarezza. 1) L’uso in chiave spregiudicatamente antagonistica e quindi polemica della ricorrenza rischia di annichilire il lunghissimo lavoro, oramai quarantennale, che molti studiosi, ricercatori e storici hanno svolto, con encomiabile acribia, sulle molteplici fonti della «complessa vicenda del confine orientale»; 2) esiste effettivamente una brutale contrapposizione tra lo stucchevole scandalismo e le sciatte retoriche dei mezzi di comunicazione, da un lato, e dall’altro la ricchissima produzione letteraria – di fatto oramai un corpus a sé – che riflette sui nessi tra storia, memoria, dolore e resoconto testimoniale; senza neanche dovere scomodare autori tra i più prossimi a noi, la letteratura italiana del dopoguerra incorpora significative manifestazioni del racconto dell’esilio istriano-dalmata: basta volere leggere quello che già c’è a nostra piena e libera disposizione; 3) un certo antifascismo di ritorno, basato su paradigmi meramente conativi, innamorato quindi del suo anacronismo, ha in comune con un neofascismo mai andato via, poiché parte irrisolta del calco nazionale, lo stesso anelito d’identità, che si fa spasmo ossessivo: due segni opposti per una comune radice, quella di una totale perdita del senso della realtà (nei confronti della quale, peraltro, non nutre interesse alcuno); 4) il rimando, in chiave pseudo-comparativa e quindi inesorabilmente associativa (“noi come voi”), all’irrisarcibile ferita antisemitica del 1938 e degli anni successivi, esprime solo la ripugnante banalizzazione nella quale qualsiasi tragedia viene letteralmente annullata, tra la ricorsa al vittimismo come arma di ricatto politico e la più totale indifferenza nei confronti dei fatti in quanto tali, e con essi rispetto alle loro dimensioni di grandezza; 5) i politici peggiori sono quelli che stanno usando il rimando al presunto “negazionismo” degli studiosi degli Istituti storici per fingersi novatori e vessilliferi di un’inesistente “verità nascosta”, dietro la quale invece si cela, assai concretamente, la volontà di censurare qualsivoglia espressione di pensiero non allineata con il rigurgito neonazionalista ed etnicista che ne accompagna le manifestazioni pubbliche; 6) il fact checking non si fa rilanciando, pur legittimamente, il bilancio di studi che è altrimenti diffusamente noto a chiunque lo voglia conoscere, posto che le controparti sono tali anche e soprattutto perché non intendono accogliere e reiterare altro che non sia la propria versione, eretta a sistema non scalfibile di precetti assolutistici; l’intelligenza politica, nei riguardi della quale si dice di volere fornire argomenti e motivazioni, richiede semmai di orientare daccapo il fuoco del confronto dall’inutile contrapposizione frontale, di taglio a sua volta sensazionalistico – dove non si sposta nulla, semmai contandosi tra sodali ma facendo sì che anche la controparte si coalizzi e si fidelizzi – verso un diverso orizzonte di riflessioni: non la ripetizione di qualcosa che molti non vogliono ascoltare – se mai l’hanno fatto, anche solo timidamente, nel passato – ma un lavoro sul tempo a venire, che è la vera sfida che ci chiama in causa. L’ossessione per il passato, ovvero per un certa idea dei trascorsi, è ciò che unisce quanti non riescono a proiettarsi verso un qualche futuro; come tale, è il suggello dell’impotenza politica presente e futura; 7) le memorie non devono essere parificate (quale sarebbe poi il senso concreto di un tale atto se non la loro reciproca nullificazione?) e men che meno “pacificate” ma ascoltate e fatte interagire: in una democrazia pluralista possono benissimo coesistere racconti diversi di ciò che fu senza che debba sussistere altro accordo preventivo che non sia quello basato sulle regole con le quali si produce conoscenza attraverso codici condivisi. Non si tratta di aprire le porte ad una qualche forma di relativismo ma di cogliere, in ogni vicenda particolare, l’elemento di universalità che porta con sé. Molto di più, memorie e ricordo non possono, né debbono, dirci.
Claudio Vercelli