Chieri, storia di una sinagoga

Amedeo VIII, Granduca di Savoia (1383 – 1451) concesse agli ebrei una condotta (Licenza) nell’ambito dello Statutu Sabaudae, in cui veniva stabilito che per vivere nel Ducato gli ebrei non dovevano convertirsi e permetteva loro allo stesso tempo di possedere una sinagoga nella casa di uno dei membri della comunità. Circa 300 anni dopo, nel 1723, Vittorio Amedeo II, Granduca di Savoia, impose agli ebrei di entrare nel ghetto. Il Piemonte fu uno degli ultimi stati in cui all’epoca era suddivisa la penisola italiana, a serrare gli ebrei nel ghetto.
A seguito delle battaglie intraprese, la Sardegna venne annessa al Piemonte e Vittorio Amedeo fu proclamato Re di Sardegna. Già nel 1578 Yaakov Ben-Ariè Segre ottenne l’autorizzazione per aprire a Chieri una banca e gli fu permesso di avere una sinagoga nella sua casa. La sala destinata a fungere da sinagoga si trovava al secondo piano e vi si poteva accedere dai balconi (ballatoi), da tutti gli appartamenti del ghetto ( non è tuttavia affatto certo che la sinagoga a quei tempi fosse situata nello stesso edificio in cui era al momento della chiusura degli ebrei nel ghetto). La sinagoga rimase nelle mani della famiglia Segre fino al 1741.
In quel periodo la famiglia Segre perse i suoi averi e mise la sinagoga con tutti i suoi oggetti e arredi a disposizione della comunità, la quale acquistò da loro la sala. Da quel momento due famiglie gestirono il luogo (e di fatto ebbero il controllo dell’edificio): la famiglia Levi e la famiglia Sacerdoti (Coen). Quando gli ebrei vennero chiusi nel ghetto (1724), c’erano a Chieri dieci famiglie, che contavano in totale settanta anime. Da notare comunque che nel 1801 vi risiedevano quindici famiglie per un totale di centosei persone.
Il ghetto si trovava nel centro storico di Chieri, nei pressi del Convento della Pace. Il luogo era stato scelto perché alcuni degli appartamenti erano già abitati da famiglie ebraiche, mentre altri erano abbandonati.
La casa del rabbino era situata in Via della Pace n° 6 (l’edificio era di proprietà della famiglia Villa) e la sinagoga al n. 8 (di proprietà della famiglia Solero). La sala al secondo piano era spaziosa – circa dodici metri per otto – e poteva contenere circa cento uomini. Le dimensioni del matroneo erano di sei metri per cinque ed esso poteva contenere fino a trentacinque donne.
Osservando una foto scattata alla fine dell’ottocento da un giovane fotografo di nome Giuseppe Ferrino – diventata poi una cartolina rara che fu trovata dai ricercatori Colli e Terranova nella collezione di Cartoline Ebraiche d’Europa (non fu facile scovarla) – possiamo vedere una sala al centro della quale si trova un pulpito – quello che in ebraico viene chiamato Tevà o Bimà – riccamente decorato; in lontananza – al di là della Tevà si può distinguere un Aron kodesh (o Hechàl – di seguito useremo alternativamente entrambi i termini), dove sono custoditi i Rotoli della Torà, splendidamente decorato; sull’asse che unisce l’ingresso, la Tevà e l’Hechàl, si affacciano due ordini di sedili – banchi a due posti, ciascuno con un cassetto per riporre oggetti rituali e libri – quindici per ognuno dei due lati, e un altro gruppo di sedili che è ripartito sui due lati dell’ingresso, rivolto verso la Tevà. Ogni gruppo di banchi conteneva circa trenta posti a sedere e, guardando la cartolina, sembra che ci fossero nella sala circa novanta posti per gli oranti.
Sul lato sinistro (ovest) della sala c’era una specie di piccolo palco sollevato dal pavimento, sporgente verso il vano della sinagoga, dal quale venivano pronunciati i discorsi del Rabbino che dovevano “avvincere il pubblico” – in particolare i commenti alla parte della Torà letta poco prima. Sorge la domanda a che cosa servisse, visto che c’era già al centro della sinagoga una Tevà. Ma di questo tratteremo in seguito.
La sala aveva in ciascuna parete longitudinale tre finestre con un arco a sesto acuto – un residuo del periodo medievale della sala.
I due mobili principali sono del 1773 (anche su questo torneremo più avanti), anche se la sala subì un accurato restauro nel 1841. Tutta la decorazione barocca piemontese è di questo periodo più tardo. Sopra ogni finestra c’era una lunetta – una specie di volta a sesto acuto – che collegava la finestra al soffitto. All’interno di ciascuna delle lune c’era un disco con una decorazione biblica. Sono rimaste in sito le immagini di tre delle decorazioni: 1) la torre di Babele; 2) il tabernacolo nel deserto e 3) il ricevimento delle Tavole della Legge. Si sa che una delle decorazioni che non ci è giunta, raffigurava il carro di fuoco sul quale il profeta Elia salì in cielo, e c’erano poi altre due decorazioni i cui soggetti non mi sono noti. Le decorazioni si basano su illustrazioni che per chi viveva a quell’epoca dovevano essere familiari.
Secondo lo Shulchan Aruch: “I Bate’i ha Knesset si aprono solo verso la direzione cui si prega nella stessa città; se vi si prega verso ovest, si aprirnno a est in modo che dall’entrata ci si possa inchinare verso l’Aron Hakodesh, poiché esso si trova verso la direzione di coloro che pregano, e si pone una Tevà al centro della stanza in modo che tutti possano sentire chi vi salga per leggere la Torà o per esprimere al pubblico i suoi discorsi di ammonimento”.
Così è costruito lo spazio di una sinagoga: uno spazio che nella sua interezza assomiglia ad una specie di “bomboniera” ricca e decorata. Proviamo ora a delineare i due elementi principali nella sala: l’Hechàl e la Tevà.
L’Hechàl: Non entrerò nei dettagli della intavolatura barocca e della ricca ornamentazione dell’Hechàl. Mi concentrerò sul significato teatrale della facciata. È composta di cornici che si susseguono una “dentro” l’altra, conferendo al particolare disegno delle ante una sorta di profondità, una specie di visione telescopica. Nella cornice interna si mostra una specie di grande sala coperta da una cupola, mentre finestre rotonde vi lasciano entrare la luce. Capiremo subito il significato di questo vano osservando il pannello della Tevà antistante. Anche lì c’è una specie di vano coperto da una cupola e anche questo ha due finestre arrotondate ed eleganti che “fanno penetrare” luce all’interno di uno spazio immaginario. Ma nel pannello della Tevà, all’interno del vano, c’è a sua volta una specie di arca; su questa, due figure alate e nella parte inferiore del pannello compaiono due lettere – be’it e he’i – BH. Non c’è dubbio che il riferimento sia al Beit Hamikdash’ ossia Casa di Dio. L’immagine che abbiamo davanti, sia dell’Hechàl che della Tevà, è quindi una rappresentazione del Tempio di Gerusalemme.
Ma perché il Tempio è coperto da una cupola? Questo risulterà chiaro chiedendoci che cosa vede il turista che giunge a Gerusalemme e la ammira dal Monte degli Ulivi. Vede la “Cupola della Roccia”, meglio conosciuta con il nome popolare di “moschea di Omar”. Può forse esservi qualcosa di più chiaro dell’illustrazione del “Seder Ha’avodà? In questo testo, che riporta l’ordine seguito nel culto sacerdotale del Tempio (in uno dei libri illustrati del Maimonide), il Tempio viene rappresentato come la Cupola della Roccia, su cui si aprono finestre probabilmente rotonde, il cui scopo era di far entrare la luce all’interno dell’edificio.
In altri Aronot Kodesh piemontesi, come ad esempio quello di Acqui (che si trova oggi in un’aula laterale della sinagoga di Torino), vediamo su un’anta un rilievo del Tempio che si presenta come una struttura a cupola con finestre arrotondate nella sua parte alta, mentre la seconda anta presenta una illustrazione della struttura a basilica sul Monte del Tempio con una sala semicircolare con sedili torno torno raffigurante la Sala delle Pietre Squadrate (luogo in cui si riuniva il Sinedrio nel periodo del Secondo Tempio).
Non erano molti gli ebrei che arrivavano a Gerusalemme per ammirare il Monte del Tempio dal Monte degli Ulivi; era quindi più probabile che ci si accontentasse di fonti di ispirazione prese dall’ambiente circostante. In Italia non mancavano certo chiese ottagonali sulle cui cupole si aprivano finestre ovali!
Ebbene, nelle ante dell’Aron Hakodesh di Chieri (come pure nell’Aron Hakodesh di Trino Vercellese) lo spazio del Tempio viene espresso sulla base della fervida fantasia dei rabbini locali, alla quale si unisce la fantasia dell’artista che ha creato gli elementi arredativi.
È interessante notare come nello spazio a cupola abbellito da porte, oltre alle colonne e alle finestre, sia presente anche un pavimento quadrettato in bianco e nero. Osservando con attenzione lo stesso Aron hakodesh, vedremo che si trova su un palco il cui pavimento è anch’esso a quadri bianchi e neri, in modo che chiunque vi si avvicini si senta come se – superato il pavimento del pavimento antestante all’Hechal-continuasse ad entrare direttamente all’interno del “Tempio” che è inglobato nelle ante dell’Aron Hakodesh.
La Tevà: la Tevà è costruita come un baldacchino esagonale, poggiato su 6 colonne tortili sulle quali si attorciglia una vite d’oro (un ricordo appunto della vite dorata che si intrecciava su due colonne all’ingresso del Tempio di Gerusalemme). Sopra le colonne si ergono 6 travi a voluta, risultato di una ottima lavorazione barocco piemontese. Le travi ricordano mobili dell’epoca nelle sale dei palazzi ducali piemontesi. Fra le colonne vi sono delle iscrizioni prese da versetti della Bibbia e dal Pirke’i Avot (Le Massime dei Padri):
Al Signore appartiene il mondo e tutto ciò che è al suo interno (לה’ הארץ ומלואה);
Spiana i tuoi passi (“פלס מעגלי רגלך”);
Dio voglia che siate cheti (מי יתן החרש תחרישון);
Paga per quello che crei (“את אשר תצור שלם?”);
Con le luci rispettate Dio (באורים כבדו ה’);
Date a Lui ciò che è suo (“תנו לו משלו);
Onora Dio con i tuoi averi (“כבד את ה’ מהונך);
Sappi chi ti è superiore (דע מי למעלה ממך).
La Tevà ha 6 lati. In ognuno di questi è presente uno dei simboli che costituiscono un “ricordo del Tempio”, con le iniziali dell’illustrazione sovrastante: “Il bastone di Aron”; “Il vaso della Manna”; “La forma di una menoràh”; “Le due tavole”; “Il pane dell’offerta”; Il Tempio”.
Da notare che sopra al pannello del Tempio, che si trova sotto la mensola del leggìo della Tevà, è indicata la data dell’opera; c’è la scritta::ותתן לי מגן ישעך “E darai a me uno scudo di salvezza”, e la data è incastonata nelle lettere indicate: Ha’taglag – 5533, corrispondente al 1733.
È interessante soffermarsi sulle colonne tortili. Ne troviamo di simili anche a Chieri, a Carmagnola e in altri Aronot kodesh in Italia. Si sa che il Bernini circondò il suo altare in Vaticano con colonne dello stesso genere (anche se molto più monumentali), e che lui stesso prese ispirazione dalla tomba di San Pietro a Roma, intorno alla quale c’erano delle colonne di questo tipo attorno alle quali si attorciglia una vite d’oro – probabilmente ispirata a quella del Tempio di Gerusalemme.
Questi due straordinari elementi, la Tevà e l’Aron Kodesh, furono ideati dal famoso Architetto della casa reale Benedetto Alfieri e realizzati da due famosi ebanisti delle famiglie Riva mentre la doratura venne eseguita da un noto doratore di nome Gallina. Si trattava probabilmente di artigiani che lavoravano nella casa reale, nei palazzi di Casa Savoia, e che il re mise a disposizione della comunità ebraica. Questi oggetti sono annoverati fra le meraviglie della creazione piemontese di quel periodo.
Sorge la domanda: per quale motivo si incontrano nel periodo dei ghetti in Piemonte così tante decorazioni che ricordano gli oggetti rituali del Tempio?
In effetti in quel periodo venne in Italia il rabbino Chaim Ben Atar, proveniente dal nord Africa. Vi giunse per stampare i suoi libri. Nella sua opera “Orach Chaim” (Stile di vita), egli indica il 1740 (הת”ק – 5500 del calendario ebraico) come anno di avvento della Redenzione: il suo discepolo Immanuel Chai Ricchi, postpone questo evento e lo colloca dal 1740 al 1780 (התק”מ – 5540).
Gli ebrei piemontesi, che nel primo quarto del secolo XVIII erano stati costretti a trasferirsi dai loro appartamenti di lusso in ghetti angusti, nel loro sconforto trovano consolazione in speranze di Redenzione e all’interno dei ghetti affollati creano sinagoghe che sono opere di impareggiabile splendore sui cui mobìli abbondano raffigurazioni del Tempio – a significare che la venuta del Redentore è vicina. Per rendere l’idea dell’atmosfera di quei giorni, ricorderò qui l’episodio che riguarda uno dei miei antenati, il quale venne in Eretz Israel nel 1734 e vi condusse il suo figlioletto (portato in viaggio all’insaputa della moglie). La ragione di questo atto era che alla venuta del Messia, doveva esserci ad accoglierlo almeno un membro della famiglia Cassuto.
Avevamo precedentemente lasciata aperta la domanda relativa alla necessità di un palco sopra elevato. Penso di avere a questa domanda una risposta esauriente: quando mi immagino il hazan (il cantore) – o il rabbino, in piedi all’interno di una Tevà così riccamente decorata, penso che probabilmente il pubblico non potesse vederli distintamente e ascoltare comodamente le loro “esegesi bibliche”. Era bene che un oratore stesse in una posizione dalla quale il suo viso fosse visibile agli ascoltatori. E qui va detto che la foto è fuorviante. Il palco sembra essere incastonato in uno degli spazi delle finestre, in una posizione in cui un oratore, standovi in piedi, urterebbe con la sua testa al soffitto). Ma guardando la foto più attentamente, il palco poggia su una mensola sporgente indipendente nello spazio. Standovi in piedi il rabbino poteva comodamente fare il suo discorso e il pubblico poteva guardarlo con la massima attenzione.
E vengo ora a uno dei grandi punti interrogativi di questa sinagoga. La sala della sinagoga era l’unica adatta a poter svolgere questa funzione nella schiera degli edifici del ghetto, sia per dimensioni, che per il fatto di essere più elevata rispetto al resto degli edifici della zona. C’era però un problema intrinseco: questa struttura era rivolta a nord e non a oriente.
Come risolse il problema Rav Lattes, che a quei tempi era il rabbino di Chieri? Egli chiamò un artista perché dipingesse quattro pannelli, esponendoli due per lato ai lati dell’Aron Hakodesh. Questi riportavano quattro illustrazioni dalla Terra d’Israele – ovvero Sion:
1. La Grotta dei Patriarchi;
2. Il Tempio;
3. La Valle di Giosafat (dove alla fine dei giorni tutti i popoli si raduneranno per riconoscere Dio e il Suo regno);
4. Il paradiso al quale – “come è noto”- si accede da Sion.
Ed egli non si accontentò di questo. Incaricò i suoi architetti di creare due finestre ovali (come quelle che “sembra” fossero presenti nel Tempio) sui due lati dell’Aron hakodesh. Su quella a destra venne scritto “Neghed” (verso) e sulla sinistra “Yerushalaim” (Gerusalemme). Questa combinazione di parole compare in un punto del libro di Daniele in cui si narra di quando Daniele nel soppalco dove abitava, si rivolgeva “neghed Yerushalaim” e verso quella direzione diresse la propria preghiera. Il rabbino trasformò in questo modo miracolosamente il nord della sinagoga in oriente.
E la comunità pregò rivolta a Sion e non al Polo Nord.
David Cassuto
(Nell’immagine, la sinagoga di Chieri)