Storie di Libia – Franco Arbib
Franco Arbib, nato a Firenze nel 1950, ebreo libico. I suoi genitori erano entrambi originari di là. Dal 1948 suo padre, essendo il presidente della Comunità ebraica, si occupava del trasferimento in Israele di gruppi di giovani correligionari. Curava tutta l’organizzazione e la preparazione per il loro viaggio. Per questo motivo la sua famiglia era a Firenze al momento della sua nascita. Successivamente i suoi decisero di tornare a Tripoli. Abitavano nel palazzo Colosseo e ricorda che avevano una doppia porta, di cui una di ferro, per sentirsi più sicuri dopo il pogrom del ’45. La vita degli ebrei di Libia, come è stato raccontato in altre interviste, non era affatto facile. Sapevano che per poter vivere in tranquillità non potevano fare molte cose, dovevano stare attenti a dove andavano e a cosa facevano. Sapevano benissimo che a Tripoli i giovani ragazzi ebrei dovevano difendersi da aggressioni fisiche. Nel periodo del Ramadan, dove per un mese gli arabi giravano molto meno, loro con le biciclette si muovevano indisturbati per la città, e così potevano godersi ogni luogo. Le famiglie ebraico-tripoline seguivano con stretta osservanza tutte le tradizioni religiose, le mitzvot, le feste e il cibo kasher, quasi nessuno di loro viveva superficialmente la propria religiosità. La sua famiglia lo era ancora di più, perché il bisnonno Avraham Arbib era stato un rabbino molto importante, autore di un manoscritto riguardante la mistica ebraica di nome Raadia, che trattava di fenomenologia misteriosa riguardo la meteorologia, tutte manifestazioni del Divino, come con il diluvio universale. Il tipo di tradizione religiosa degli ebrei libici era molto particolare, tramandata, insegnata nei secoli da vari rabbini conosciuti nel mondo e in molte altre comunità, ed era basata sull’osservanza e il rispetto delle regole e delle festività, con le loro liturgie, la misericordia, le opere di bene. Franco racconta di un gruppo di donne che gratuitamente pulivano le sinagoghe e cucinavano il pane per offrirlo a chi non l’aveva, e prima di darglielo per non fargli pesare il dono ne mangiavano un pezzetto, come per dire, io sono come te. Le vicissitudini degli ebrei nacquero molto prima dei vari pogrom. Il mondo non è a conoscenza delle deportazioni subite dagli ebrei tripolini. Nel 1915, su ordine del governo italiano, ben 800 giovani furono deportati dalla Libia in Italia a lavorare nell’industria bellica, e fino ad oggi non si è mai saputo nulla di loro, se fossero sopravvissuti, o tornati. Anche nel 1915 alcuni vennero accusati di ribellioni e sommosse politiche, e furono deportati nelle isole Tremiti e anche di loro non si è più saputo nulla.
La situazione peggiorò con le leggi razziali fasciste. Innervosito dal fatto che gli ebrei a Tripoli chiudevano il sabato, Italo Balbo fece una legge che obbligava gli ebrei ad aprire di sabato per i turisti italiani, e chi non rispettava tale legge veniva frustato in pubblico. Si racconta che un gruppo di donne, per chiedere aiuto a D.O contro questa legge iniqua, pregarono tutte insieme.
Gli italiani fondarono a Giado in Tripolitania un campo di concentramento. Il Governatore italiano incaricato era Ettore Bastico e ne era a conoscenza. Su duemila ebrei internati ne uccisero 500. Dopo la battaglia di El Alamein, dove gli italiani persero, subito andò in pensione e nel 1956 fu anche insignito del titolo di Cavaliere della Repubblica. Una vergogna, sapendo di cosa si era macchiato. Nel 1958 il governo libico aveva deciso di sciogliere la Comunità ebraica, imponendo di chiudere il tribunale rabbinico, ed in ogni sinagoga vi era un agente del servizio segreto libico. Il governo nominò il direttore del mukhabarat libico come commissario della comunità.
Nonostante il nasserismo Tripoli era una città dalla forte impronte ebraica. Quando uscivano il sabato, potevano entrare in un bar, andare in un cinema, al ristorante, in un negozio, senza pagare. Tutti erano sicuri che l’indomani tutti i debiti sarebbero stati pagati. Nel giugno del 1967 il governo libico organizzò il pogrom antiebraico il cui scopo era di distruggere la comunità ebraica ed impadronirsi dei suoi beni. A inizio Anni ’60 suo padre Lillo Arbib aveva organizzato un comitato per salvaguardare i diritti della comunità ebraica: questo comitato si incontrò col primo ministro Ottman Esed ad El Beida nel giugno 1962. Le promesse di riconoscimento dei diritti cittadini per gli ebrei non furono mai mantenute. Quando nel giugno 1967 scoppiò il pogrom antiebraico si scoprì che già alcuni giorni prima gli arabi avevano deciso di bruciare i negozi appartenenti ad ebrei, le sinagoghe e di distruggere la Comunità.
Si scatenò la follia e l’odio verso la Comunità ebraica, ci furono numerose sommosse, vennero bruciati i negozi, le scuole, le case degli ebrei, e uccise molte persone. Si seppe anche del massacro di due famiglie. Subito dopo il pogrom il padre di Franco cercò di organizzare la salvezza della Comunità, scrisse al primo ministro Hassen Mazeg, al mufti di Tripoli ed al re. Queste sue azioni portarono al permesso di partenza temporanea per tre mesi verso l’Italia, che in seguito venne tradotta in espulsione dal paese di tutta la collettività ebraica e in confisca dei beni. Le autorità libiche, per impedire qualsiasi contatto fra i membri del comitato ebraico, tagliarono anche i fili del telefono e alcuni agenti tennero suo padre sotto controllo. Un giorno venne il suo procuratore che era italiano, si chiusero in una stanza e gli raccontò della storia delle due famiglie che erano state massacrate, e suo padre capì che erano tutti in una situazione veramente difficile. Quindi decise di scrivere dei telegrammi al re e al primo ministro, per metterli al corrente dei fatti accaduti. Dopo qualche giorno arrivarono a casa tre ufficiali di polizia che vollero parlargli e Franco rimase con lui come testimone. Gli ufficiali iniziarono a rimproverarlo aspramente dicendogli “come si permetteva di raccontare certe bugie”.
Egli rispose, che questa era la verità e aveva anche le prove, chiese protezione o di fare uscire tutti quanti gli ebrei da Tripoli. Dopo un paio di giorni gli ufficiali ritornarono a casa loro e gli dissero che il governo aveva deciso di farli uscire. Siccome molte famiglie ebraiche non avevano documenti, né passaporti, ottenne che impiegati del governo andassero in giro per le famiglie per fare loro le foto e creare i documenti per il viaggio. Così finalmente ebbero il nulla osta per lasciare la Libia, ma non poterono portare via tutto ciò che avevano. Poterono salvare le loro vite. Mentre erano chiusi in casa durante il pogrom, ed erano presenti quei poliziotti, suo padre gli disse di andare senza farsi notare, nella stanza che avevano sul terrazzo, e di cercare una cassa che gli ordinò di bruciare. In essa Franco vide molti documenti, foto, trascrizioni delle riunioni del gruppo giovanile revisionista di Betar, di cui suo padre faceva parte negli anni 30-40. Quella cassa era un archivio di tutti coloro che facevano parte del Betar, ma lui non si sentì di bruciare tutto, ma solo una piccola parte e il resto lo nascose in un grammofono che riuscì ad aprire e che fortunatamente poterono portare via. Ai suoi figli e nipoti, Franco non ha trasmesso la sofferenza subita a Tripoli ma solo gli insegnamenti della loro cultura religiosa ebraico tripolina. Una cultura millenaria, la loro antica lingua che pochi conoscono, ma della quale conservano l’alfabeto, che suo padre ha insegnato al nipote, e un manoscritto di un rabbino di grande fama, che si chiamava rabbi Yaakov Raccah. Esso è composto da circa 1000 pagine, e in esso il Rav spiega i primi 60 capitoli del Shulchan Aruch di rabbi Yosef Caro: essendo scritto in una lingua ormai sconosciuta, stanno facendo un’opera di traduzione in ebraico. Per quanto riguarda ciò che hanno subito in Libia, per loro è un conto aperto con gli arabi, che non si può chiudere, solo quando avranno la forza lo porteranno avanti per avere giustizia. Anche dopo 54 anni pensa che sia importante cercare il risarcimento, da parte del governo libico, di ciò che gli è stato ingiustamente confiscato. Ma una cosa la possono fare, e cioè per mezzo di internet creare siti nei quali si potranno rivelare tutte le verità nascoste intorno ai pogrom, ricostruire virtualmente i cimiteri e le sinagoghe distrutte, raccontare, con le testimonianze dei sopravvissuti, cosa veramente successe. Raccontare tutto ciò che gli arabi per sfregio hanno compiuto nel tentativo di cancellare le prove della presenza millenaria degli ebrei, distruggendo o tramutando in luoghi islamici le sinagoghe, arrivando a radere al suolo un cimitero monumentale per costruirvi sopra un’autostrada, tramutare in moschea il Tempio Maggiore. Nel centro di Gerusalemme c’è un cimitero arabo così pure nella strada tra Ramle e Rehovot e nessuno pensa di spostarli: cosi, spiega, si deve fare.
Nel Corano pure c’è scritto: “Le tombe appartengono a D-O.” Franco è convinto che se cambiasse la politica in Libia non cambierebbe la mentalità musulmana che, a prescindere, odia gli ebrei. E anche se si potesse trovare il modo di preservare i luoghi sacri rimasti, le sinagoghe i cimiteri ebraici, o si avesse la possibilità di costruire un monumento in memoria delle vittime dei pogrom del 1945, del 1948 del 1967 e dell’Olocausto, per chi dovrebbero essere preservati i luoghi sacri e per chi costruire un monumento se non c’è neanche più un ebreo a Tripoli? Fare opere per cosa? Per vederle poi sfregiate e distrutte dagli arabi? Oltretutto chi si occuperebbe di rappresentare la Comunità tripolina, se non c’è più nessun ebreo, chi potrebbe prendere accordi? Per questo non si può fare più nulla, ma far sapere la verità al mondo della persecuzione subita dagli ebrei libici, quello sì. Sono stati cacciati ma non si sono mai arresi, anzi la loro esperienza può essere di aiuto per le altre comunità. La cultura antica degli ebrei di Libia può insegnare l’umiltà, lo studio della Tōrāh, l’osservanza della tradizione religiosa ebraico tripolina, delle mitzvot, la liturgia, le usanze, che esistono da più di duemila anni. L’accoglienza di tutti i popoli accettando le diversità e rimanendo fermi nei propri principi religiosi.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(21 febbraio 2022)