Torino, un santuario in miniatura

Dalla storia del piccolo Tempio di Torino, inaugurato mezzo secolo fa, al ruolo del Bet HaKnesset nella tradizione ebraica. Dal destino del ghetto di Chieri, cittadina del torinese, e della sua sinagoga al significato della tefillah (preghiera). Sono alcuni dei temi toccati nella giornata di studio organizzata dalla Comunità ebraica di Torino per festeggiare gli oltre cinquant’anni di vita del suo “Santuario in miniatura”, ovvero la sinagoga piccola della città, che trova posto nei locali di quella grande, realizzata dopo l’Emancipazione. A fare un quadro storico delle vicende legate al tempio, alla sua realizzazione così come alle origini dei suoi arredi, sono stati Franco Lattes, Baruch Lampronti, Mariacristina Colli, David Cassuto, Pia Sarzina Sciacca e Franco Segre. In una seconda sessione invece rav Alfonso Arbib, rav Alberto Moshe Somekh e rav Ariel Di Porto si sono soffermati sull’uso e significato della sinagoga per l’ebraismo e sul ruolo della preghiera (clicca qui per rivedere l’incontro).
Di seguito il testo della presentazione curata da Franco Lattes, intitolata “Sinagoghe erranti”.

Nel rapporto tra Ebraismo e Mondo Classico si intravede la convivenza contrastata di due paradigmi rivali. Ebraismo e Mondo Classico non necessariamente si contrappongono, escludendosi l’un l’altro (a violenti conflitti si sono alternati periodi di feconda permeabilità tra le culture), se esaminati a fondo, possono però condurre in direzioni radicalmente divergenti, se non antitetiche. Due figure simboliche costituiscono i perni del confronto. In esse intravediamo due metafore rivelatrici di concezioni molto diverse della condizione umana. Da una parte il Monumento, «ricordo», da monere «ricordare» dunque anche «monito», affermazione categorica, definitiva, eterna, un concetto; il suo statuto è forte, granitico e stabile. Dall’altra un concetto il cui statuto è apparentemente più fragile, più duttile e insieme più duraturo: il Libro, inteso come «Legge» ma anche come «strumento di conoscenza, che custodisce verità da ricercare, da portare ininterrottamente alla luce».
La ricerca di una verità ultima, assoluta, da indagare in una dimensione che va al di là del contingente e dell’imperfezione dell’uomo, rimanda ad un carattere iniziatico che è stato attribuito all’architettura lungo tutto il cammino della storia, attraverso il mito e la tradizione esoterica, dalla costruzione delle piramidi a Le Corbusier.
«La filosofia greca presupponeva verità scopribili, universali; la sapienza ebraica sembrava il tesoro privato di una cultura chiusa a doppia mandata. I templi greci, eretti secondo i princìpi dell’armonia cosmica, erano fatti per attirare la gente; il Tempio di Gerusalemme era off limits per gli “stranieri”. Statue e monumenti greci erano intesi a sopravvivere agli Stati che li avevano creati, la Torah a sopravvivere all’architettura», scrive Simon Schama in La storia degli Ebrei. In cerca delle parole (Mondadori, 2013).
Secondo le regole dettate dagli antichi Maestri (Shulchan Aruch, Orach Chaim 56) nessun edificio costruito da un ebreo deve essere intonacato e affrescato come un palazzo regale e in esso occorre lasciare, di fronte all’ingresso, una porzione di muro priva di intonaco, corrispondente a una superficie di un cubito per un cubito, per ricordare in questo modo la distruzione del Santuario (Zecher le Churban). Dunque, dalla metafora dell’intonaco, per estensione, pare discendere che nessuna opera umana debba davvero aspirare alla compiutezza e alla perfezione. In quella che appare come una regola generale rivolta al comportamento pratico, si condensa un paradigma di architettura che capovolge radicalmente quanto la tradizione classica ha trasmesso: un edificio deve affermare la propria natura plurale, frammentaria, mutevole nelle forme, in ragione del tempo e del destino della comunità umana che lo ha voluto e abitato.
Il pensiero occidentale, nella sua matrice classica, tende a porre enfasi sul concetto di unità, contrapposto a molteplicità, enfasi che corrisponde al procedere verso un ordine superiore delle cose, dalla molteplicità della materia alla unità del divino. Ecco che allora, come reazione all’inquietudine generata dal disordine del paesaggio contemporaneo, l’architettura sembra trovare rifugio nella affermazione del rigore, dell’ordine, dell’armonia, dell’unitarietà: ecco che il progetto insegue la cristallina purezza dei parallelepipedi trasparenti, delle superfici riflettenti, delle curve levigate e degli spigoli affilati.
Nelle sinagoghe, in particolare in quelle precedenti all’Emancipazione, le polarità evidenti sono due, quella divina, mistica, segreta, costituita dall’Aròn Ha Qòddesh, e quella umana, esplicita e materiale, costituita dalla tribuna – Tevà – baricentro visivo e acustico della lettura collegiale della Torà, da cui chiunque dei fedeli presenti sia in grado di farlo guida la preghiera. Il rapporto mutevole che si crea tra queste due polarità, costituisce uno degli aspetti più efficaci per dimostrare come il contesto spazio/temporale abbia influito sulle sinagoghe. Il pensiero ebraico si distacca dall’idea di unità, prerogativa esclusiva del divino, per riconoscere nella pluralità, la condizione propria del vivere in un mondo frantumato.
Sarà solo nel periodo successivo all’Emancipazione (nei vari stati d’Europa si concentra intorno alla seconda metà dell’800) che nelle sinagoghe monumentali, ormai equiparate agli altri luoghi del culto maggioritario – molto significativo il fatto che spesso furono nominate “tempio israelitico” a ratifica di una ritrovata stabilità e della fine dell’esilio – si assiste ad un accorpamento dei due elementi, ad imitazione degli altari nelle chiese cristiane.
Il monumento si impone stabilmente sul luogo, lo domina, lo assorbe in sé, ne afferma la centralità ma insieme ne cristallizza il divenire. I suoi caratteri riconducono alla triade vitruviana (Marco Vitruvio Pollione, trattatista vissuto intorno al 15 a.E.V.): firmitas (solidità = permanenza nel tempo), venustas (bellezza = maestà), utilitas (utilità = monito, richiamo alla dottrina e alla gerarchia del potere).
Mentre il monumento realizza intenzionalmente una discontinuità, la sinagoga si installa nella trama dell’esistente, la assimila e la rielabora, in un processo aperto al divenire. Dal divieto di costruire nuove sinagoghe trae origine la matrice generativa delle sinagoghe pre-emancipazione; matrice che risiede nella continua manipolazione di manufatti preesistenti, dove le trasformazioni si stratificano nel tempo e la successiva ingloba la precedente senza annullarla.
Il Monumento assume il proprio rango a partire dall’impatto visivo che il proprio involucro esercita sul territorio; dunque, si costituisce dall’esterno verso l’interno. La forma della sinagoga si genera dall’interno verso l’esterno, a partire dall’uso che se ne fa, dall’intensità del valore che assume per chi la abita.
Nell’idea di sinagoga, o meglio, nella sedimentazione storica delle infinite sinagoghe che hanno accompagnato gli ebrei nel loro vagabondare, si avverte la presenza di due matrici concettuali prevalenti, L’Arca Santa e il Libro. Ciò che comunicano non è tanto la visione romantica e fatalistica di rassegnazione all’esilio, quanto la positiva affermazione di una propria identità, di un modello di pensiero e di comportamento inquieto, predisposto ad andare oltre quanto è comunemente accettato e imposto come verità universale. «Quando la Dimora dovrà partire, i leviti la smonteranno; quando la Dimora dovrà accamparsi in qualche luogo, i leviti la erigeranno» (Numeri 1:48-51).
Qualche esempio: l’Arca nelle antiche sinagoghe consisteva in un semplice contenitore per i rotoli. Secondo Carol Herselle Krinsky (Synagogues of Europe, MIT Press 1985, pag. 36) poteva essere riposto in ambienti sicuri al di fuori della sala di preghiera, trasformandosi in oggetto di attenzione solo nel momento in cui veniva trasferito all’interno della sala di preghiera, come nel caso della sinagoga di Ostia Antica, risalente al l° sec. E.V. Peraltro, nel caso di Ostia, alcuni ricercatori formulano l’ipotesi che lo stesso edificio fosse in origine destinato a residenza e sia diventato solo in un secondo tempo una sinagoga. In effetti, tra i resti archeologici si osserva un piccolo abside; ma un’iscrizione in greco ricorda un Mindis Faustos che, a sue spese, nella 2a metà del II° secolo fece costruire l’arca, il contenitore dei rotoli della Torah, che a quanto pare non esisteva prima.
Scriveva Paolo Rumiz su la Repubblica (3/08/2005). «Sapevo che gli ebrei fossero erranti; non sapevo che errassero le sinagoghe. Ignoravo che queste fossero capaci di traversare mari, volare da un continente all’altro con rotoli di preghiera, arredi e rabbini, come in un quadro di Chagall. E invece succede, le sinagoghe volano. Lo scopro nel Ghetto di Venezia, il padre di tutti i ghetti[…]dove uno studioso della Serenissima mi narra questa fantastica storia. C’era una volta, a due passi da Venezia, nella cittadina di Conegliano, un’antica sinagoga dimenticata. Un giorno, cinquant’anni fa, arrivò un ingegnere da Israele e chiese di portare arredi e decorazioni a Gerusalemme, per dare un luogo di preghiera agli ebrei d’Italia trasferiti in Terra Santa. Ebbe l’assenso dal Comune e, durante i lavori, apprese che la sinagoga aveva funzionato per l’ultima volta tra il ’17 e il ’18, dopo lo sfondamento di Caporetto.
Un plotone di soldati asburgici di religione ebraica, guidati da un rabbino, si era acquartierato proprio lì dietro la linea del Piave. […]. Fu così che il rabbino mitteleuropeo riattivò l’edificio e vi officiò la Pasqua del ’18. Ma poi fu lo sfondamento italiano sul Piave, l’abbandono e la fuga. Gli imperi crollarono, e venne il disastro. […] Ed eccoci al 1954, inaugurazione solenne della sinagoga, luccicante di arredi barocchi restaurati. Arrivano rabbini da mezza Israele. Tra loro, un anziano sconosciuto, più commosso degli altri, che alla fine si svela. E’ lui, il rabbino asburgico di Conegliano! Aharon Wishon, scampato a due guerre mondiali e all’Olocausto, che sbuca dalle nebbie del tempo. La sua sinagoga l’ha seguito; è volata a lui dal mondo di ieri. Da allora, il vecchio non l’abbandonerà più, fino alla morte».
Livorno fu, tra Seicento e Settecento, un centro ebraico fiorente, crocevia di migrazioni soprattutto di Ebrei e Marrani provenienti dalla penisola iberica. La “Costituzione Livornina” (1593), concedendo generale libertà di culto e richiamando mercanti di ogni nazione e religione, diede forte impulso alle attività portuali e commerciali e la comunità ebraica crebbe di numero e di influenza nella città. La Sinagoga seicentesca, più volte ingrandita e rimodellata, fu descritta come una delle più splendide in Europa. Distrutta nel corso dei bombardamenti della 2a Guerra Mondiale, alcuni suoi arredi, tra cui un magnifico Echal ligneo che la tradizione vuole proveniente dalla Spagna, sono custoditi presso il Museo Marini.
Intorno alle macerie della Sinagoga Vecchia, si intrecciò un vivace dibattito architettonico, tra chi ne proponeva la ricostruzione com’era e dov’era e chi affermava la necessità di un linguaggio nuovo e vitale che sancisse la transizione verso una nuova stagione, a conclusione della guerra e delle storiche persecuzioni. Il progetto della nuova Sinagoga, tra le pochissime realizzate in Italia nel dopoguerra, fu affidato all’architetto Angelo di Castro che, mettendo in primo piano la nervatura in calcestruzzo armato, pare essersi ispirato alle leggere strutture temporanee delle origini. Al centro della platea è posta la Tevà, realizzata con i marmi recuperati tra le macerie del vecchio Tempio. Di fronte alla Tevà è collocato un Hechal ligneo del Settecento, proveniente dalla sinagoga di Pesaro.
La documentazione presente nell’Archivio storico della Città, testimonia che la popolazione ebraica di Carmagnola crebbe nel 1737 con l’arrivo di un gruppo di ebrei provenienti da Racconigi. Nel 1724 fu istituito il Ghetto e lì, all’ultimo piano di uno degli edifici esistenti fu costruita l’antica sinagoga, quella che conosciamo, in sostituzione di una precedente sinagoga, ancora in uso nel 1724 e che sembra fosse locata in piazza Sant’Agostino. Della nuova sinagoga si trova menzione per la prima volta in un documento del 1786.
Nella sala di preghiera rettangolare si rappresenta in modo esemplare la disposizione a pianta centrale: con il baldacchino -Tevà – al centro, L’Arca Santa – Aròn ha Qòdesh – sulla parete rivolta ad Ovest ed i banchi dei fedeli disposti lungo le pareti. Gli scranni sono di fattura seicentesca, mentre sulla Tevà è riportata la data ebraica corrispondente al 1766. Le forme dell’Aròn Ha Qòdesh suggeriscono invece una datazione di poco posteriore: tutti i diversi elementi insieme costituiscono una collezione composita di manufatti, alcuni nati probabilmente in luoghi e in tempi diversi, realizzati da artigiani che non potevano essere gli Ebrei stessi; manufatti trasportati all’interno del Ghetto in occasione della realizzazione della nuova Sinagoga. Era questa, del peregrinare degli arredi sacri da un insediamento all’altro, una condizione ricorrente – spesso associata alla narrazione biblica – lungo i percorsi della Diaspora che dalle terre di Spagna, di Francia e di Germania, e poi anche d’Italia, condussero agli insediamenti ebraici in Piemonte.
Nel 1935 la Sinagoga di Chieri cessò la sua attività – il nucleo di ebrei ivi residenti era ormai pressoché estinto – nel 1942 fu smantellata e i suoi arredi furono trasportati nella nuova sinagoga di Torino.
Dal 1970, l’Aron ha-Kodesh e la Tevà impreziosiscono i suggestivi ambienti del“Tempio Piccolo” di Torino, allestito da Giorgio Olivetti nei sotterranei della sinagoga.

Fino a non molto tempo fa, ero convinto che, come per ogni altro reperto storico, recidere quelle sue radici dal tessuto territoriale per trasportarlo altrove, esporlo in un museo, innestarlo in un contesto lontano e diverso, costituisse un grave errore, prodotto da una forma di imperialismo culturale. Oggi non ne sono più del tutto convinto. Le radici di una sinagoga affondano tanto nello spazio quanto nel tempo: nelle vicende della comunità cui è appartenuta, quanto nelle culture materiali degli artigiani che l’hanno realizzata; nel tessuto edilizio che l’ha accolta, quanto nei riti, nelle tradizioni, negli affetti di chi l’ha eletta a proprio spazio di riferimento. É difficile stabilire una regola universale (per fortuna) ed ogni caso è un caso a sé.

Franco Lattes

(Nell’immagine, il Tempio piccolo della Comunità ebraica di Torino)