Immagini contese
L’ultima non fatica di Germano Maifreda, Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento, Feltrinelli, Milano, 2022 scivola allegramente nei canali virtuali della storia e scorre leggera nella lettura, profonda nell’incisività, con inusuale eleganza fra pagine ed illustrazioni, attraversando tempi e spazi. Chi crea queste pregevoli pagine non deve aver faticato, se riesce a renderne gioiosamente partecipe il lettore, perché quando si crea riversando quanto si è rimodellato nello studio e nell’osservazione, il lavoro non pesa. Non c’è pena nel bel mestiere delle lettere.
Il volume è anche dedicato alla c.d. cancel culture; già nell’antica Roma vi era la damnatio memoriae, non basata sull’ideologia, ancora non codificata, e in ciò antichità e postmodernismo qualcosa di simile l’hanno. Così come gli indigeni navajos credevano che le parole avessero il potere di materializzare l’evento citato, nell’abbattimento dei monumenti gli attori credono nel potere taumaturgico del marmo di riportare in vita i personaggi avversati. Costoro credevano nel potere delle immagini di orientare gli eventi e ciò comporta una regressione inconsapevole: si passa dalla preistoria alla storia quando si inventa la scrittura; tornando all’immagine quale potente portatrice di messaggi, si torna indietro nell’evoluzione? Forse no: Alfred Hitchcock sosteneva che il film migliore fosse quello muto e, se si bada al frequente profluvio di chiacchiere superflue, non doveva avere torto, soprattutto se si considera che i grandi registi, come Michael Curtiz in Casablanca imprimevano un’accelerazione alle scene perché non se ne scoprisse l’incoerenza.
L’autore racconta che: “nell’archivio della Comunità ebraica di Mantova è conservato un antico e logoro fascicolo, unica testimonianza sopravvissuta di vicende accadute in città quasi quattrocento anni fa. Se quei documenti non fossero stati tramandati, nulla sapremmo di cosa avvenne quel caldo mattino di mercoledì 4 giugno 1625 in cui, davanti al capitano di giustizia di Mantova – il giudice criminale dello Stato –, comparvero i rappresentanti degli ebrei che da diversi secoli abitavano le terre del ducato. In quell’occasione uno di loro, Bonaiuto de Rossi, si scagliò contro un’opera del pittore mantovano Vincenzo Sanvito, abitante nella contrada di Santo Spirito; da lui accusato di avere “formato un quadro nel quale ha pinto, e ritratto quelli sette hebrei che furono apiccati con li piedi in su al tempo del Padre Barthelomeo. La qual cosa ha causato che li habitanti di quella contrada, per questa caggione ramemorati di quel successo, infestano e molestano li hebrei, che di là passano”, e soggiunge che “per lungo tempo questa forma di supplizio, o di esposizione del cadavere, è stata considerata dagli storici specificamente antiebraica, e ancor oggi in tedesco è chiamata Judenstrafe, “esecuzione ebraica”. A preoccupare la Comunità ebraica mantovana d’inizio Seicento era dunque anche l’ineguagliabile evocatività di questa immagine, in grado di ricreare e trasmettere significati di volta in volta politici, sociali, culturali, emotivi: nel gioco di rimandi tra passato e presente, ripetizione e istantaneità, conscio e inconscio, alla cui indagine il sommo storico e critico dell’arte tedesco Aby Warburg dedicò l’esistenza”.
L’assenza dell’immagine può colpire più della sua presenza? Quando gli invasori entrano nel Tempio di Gerusalemme sperando di trovare monumenti e preziosi da spogliare, grande è stata la loro sorpresa quando non trovano nulla. L’assenza dell’immagine, in questo caso, è portatrice di un messaggio terribile per il nemico, costretto ad evocare con la sua mente travagliata il mistero che gli si dischiude.
In seguito, Maifreda porta il lettore, fra tant’altro, nella Francia rivoluzionaria: “L’obiettivo principale dello schema di manifestazione pubblica che si cristallizzò nella Parigi di fine Settecento erano la ricerca e il rispecchiamento di un consenso popolare che appariva allora incerto e sfuggente. Da qui la necessità di schemi rigidi, fissati anticipatamente, sorvegliabili a fronte di possibili imprevisti e degenerazioni; ma al contempo volti a restituire un’apparenza di serietà e istituzionalità. Un buon esempio di ciò è la festa della Federazione, tenutasi nel Campo di Marte di Parigi il 14 luglio 1790 per celebrare il primo anniversario della distruzione della Bastiglia.”.
A fronte di cotanto ardore, racconta Roger Scruton che, quando la Bastiglia fu presa d’assalto, nel 1789, erano rinchiusi sette prigionieri, rilasciati fra la gioia generale, due dei quali erano pazzi e dovettero essere rinchiusi di nuovo. Quattro anni dopo, le galere francesi ospitavano (si fa per dire) 400,000 persone, in condizioni che assicurarono la morte di molti di loro. A conferma che per andare in paradiso, molti conducenti considerano doveroso passare per l’inferno.
L’autore poi racconta che “i saccheggi inflitti dallo Stato italiano a chi era considerato nemico o ebreo non avessero ragione precipuamente economica è desumibile dai loro elenchi, alcuni dei quali furono già all’epoca solennemente pubblicati. Le pagine della “Gazzetta ufficiale” della Repubblica sociale italiana dell’anno 1944 sono, per esempio, sinistramente popolate da “2 paia di calze usate” e da “una maglia di lana fuori uso, 3 mutandine usate sporche”. O ancora da “1 bandiera nazionale, 1 bidè, 1 enteroclisma” già appartenuti al rabbino capo di Genova Riccardo Pacifici, che era stato arrestato il 3 novembre 1943. Fu deportato ad Auschwitz il 6 dicembre e vi trovò morte all’arrivo, l’11 dicembre di quell’anno”. Il potere evocativo dello spoglio, l’efferatezza, l’accanimento miserabile sui pochi averi, possedevano una forza comunicativa notevole, perché la prepotenza è, anch’essa, uno spettacolo.
Chi ha visto Vladimir Putin fare il suo ingresso da porte gigantesche, può aver mai ignorato la geometrica potenza dell’immagine? Viceversa, sotto il fascismo, i filmati in cui si vede l’auto del Duce affiancata da un maldestro cavaliere, annunciano già la disfatta, indi, le immagini del Führer che si scatena in gesti teatrali, convogliavano due messaggi, l’uno di esaltazione del paese, l’altro di una follia che distrusse cinquanta milioni di vite.
Ora Germano Maifreda costringe noi a fare i conti con i messaggi che emanano dalle immagini, scuotendo dalla ignavia che sovente fa chiudere gli occhi per rimuovere le insidie. Quest’eleganza e ricchezza di contenuti a lui proprie sono una preziosa risorsa alla quale attingere, un invito dall’impronta filosofica, in quanto invita generosamente a chiamare per nome il nostro intorno.
Emanuele Calò, Giurista