Machshevet Israel
Rav Benamozegh contro la guerra

Nel 1870, anno dell’annessione di Roma e dello Stato pontificio al Regno di Italia, rav Elia Benamozegh “rabbino a Livorno” partecipò con un proprio manoscritto a un concorso indetto a Parigi dalla Ligue de la Paix, una società creata in Francia a metà Ottocento, sulla base delle tristi esperienze europee, allo scopo di abolire le guerre (quanto il Novecento era lontano!). Titolo dell’opera: Le crime de la la guerre dénoncé a l’humanité, ossia “il crimine della guerra denunciato all’umanità”. Il rav di Livorno vinse il concorso, il testo venne premiato ma il manoscritto non fu pubblicato e andò perduto. Infatti, sfortunatamente era l’unica copia (ci vorrebbe una berakhà per chi ha inventato la fotocopiatrice). Invano l’autore inviò lettere a Parigi, implorando che gli venisse restituita. Fino ad oggi, nessuna traccia. Ma Benamozegh aveva conservato il sommario, ossia l’indice e lo pubblicò in proprio, sempre in francese, nella tipografia con cui, nella città labronica, si guadagnava da vivere.
Da tale sommario si evince trattarsi di un volume vasto, in otto capitoli (sebbene manchi il secondo), sviluppato su un’analisi storica e antropologica del fenomeno bellico. Nell’introduzione è affrontata la questione di fondo, per il quale il concorso era stato indetto: è possibile per l’umanità “abolire la guerra”? È questa un’“utopia realizzabile” (per usare un’espressione cara ad André Chouraqui)? Sin dall’inizio il rav la paragona ad altre utopie che, nella storia, l’umanità ha saputo realizzare: l’abolizione della schiavitù, che sembrava un’istituzione irriformabile, e la tortura, l’assolutismo, la tratta dei neri, ecc. Nel clima delle magnifiche sorti e progressive di fine XIX secolo, davvero tutto ciò sembrava ormai alle spalle. Il XX secolo si incaricò di smentirlo e per il futuro non siamo ottimisti. Ma Benamozegh ci credeva e alzò la sua voce per denunciare all’umanità il “crimine della guerra”. Sappiamo che l’etica politica ebraica è cauta e sfumata in materia, distingue tra tipi diversi di guerre e non sposa il pacifismo fine a se stesso, che non guarda in faccia alle ragioni del conflitto. Tuttavia dalla piccola e provinciale Livorno Benamozegh gridò quest’utopia, nella lingua internazionale dell’epoca (il francese), e rilanciò quel che che aveva articolato solo tre anni prima nel volume, scritto nella stessa lingua e a sua volta frutto della partecipazione a un concorso parigino (indetto nel 1965 dall’Alliance Israélite Universelle), Morale juive et morale chrétienne, che il rav pubblicò nel 1867, (tradotto da Elio Piattelli, presentazione di rav Elio Toaff, edito da Carucci nel 1977; riedito da Marietti nel 1997).
Il suo trattato contro la guerra va dunque considerato uno sviluppo e un’applicazione delle tesi del volume sulla morale, nel quale non solo difendeva l’etica ebraica ma rivendicava per essa la primogenitura, fonte dei valori morali sia del cristianesimo sia dell’islam. Uno di questi valori è la doppia unità del genere umano: l’unità di origine e l’unità d’avvenire: “All’inizio della storia l’unità di Mosè, l’unità del passato; al termine, l’unità di Sofonia, l’unità dell’avvenire”. Senza questo orizzonte, a un tempo storico ed escatologico, halakhico e messianico, non si comprende il pensiero così straordinariamente attuale, di Elia Benamozegh, un filosofo della storia degno di stare accanto a Giambattista Vico e allo stesso Mazzini, con cui corrispose. È da questo orizzonte religioso – dove ebraicità e universalità non sono affatto in conflitto, come non erano in conflitto il suo patriottismo italiano con l’auspicata “federazione europea” (nel 1870!) – che il rav di Livorno grida: le radice di ogni guerra sono nell’odio tra le nazioni e in una ‘cinica mistica della forza’ che produce solo mali: sociali, economici e sanitari, con un’infinità di dolori. V’è una sola chance per l’umanità di realizzare l’utopia insegnata e perseguita dai profeti di Israele: l’abolizione totale della guerra. Tout court. L’ottavo e ultimo capitolo della sua opera perduta era una dissertazione sui mezzi per riformare la società umana al fine di “arrivare alla soppressione definitiva della guerra” e sulla “necessità di agire in concreto e di comune accordo”.
Belle parole, si dirà. Ma dimenticate. Che un rabbino italiano, sefardita di origine marocchina, di lingua francese, dedicasse molta parte del suo tempo a pensare e scrivere queste cose…beh, ancor oggi ci appare un fuoriclasse, un ish chazon, la cui visione stava radicata nella tradizione biblico-talmudica e al contempo era votata al tiqqun ‘olam. Una visione ben colta dal titolo dell’opera, progettata e solo in parte pubblicata da vivo, Israël et l’humanité. Pensare che in quest’opera, solo perché postuma, non vi sia tutto Benamozegh è un nonsense. Riempire di senso religioso ed etico quell’et è stato il genio di Benamozegh; articolare il legame profondo tra mosaismo e noachismo è stato il suo modo di pensare i destini incrociati di Israele con gli altri popoli; tener vivo l’afflato messianico – non poi così alieno alle aspettative del suo secolo – fu il mezzo con cui volle riscattare il giudaismo, andando oltre l’apologetica e mostrando quanto di perenne ci fosse nella visione ebraica dell’uomo e della storia. Che il bicentenario della sua nascita, l’anno prossimo, sia l’occasione per riscoprirlo nella sua complessa grandezza. Incluso questo sforzo utopico – messianico – teso ad “abolire per sempre ogni guerra”.

Massimo Giuliani, università di Trento