La difesa della razza
La mattina del sei settembre 1938, il giorno successivo all’approvazione, in Consiglio dei Ministri, del primo dei Decreti Regi a difesa della cd. “razza italiana”, alcune decine migliaia di cittadini italiani si svegliarono (come scrive Fausto Cohen, nel suo libro Italiani ed ebrei. Come eravamo) nella stessa condizione di Gregor Samsa, nella Metamorfosi di Kafka. Come dei mostruosi insetti giganti. Non erano più dei normali esseri umani. Non potevano più andare a scuola, all’Università, lavorare nello Stato, avere imprese, essere soci di circoli, assumere dei domestici diversi da loro ecc. ecc. Niente, erano diventati all’improvviso, come per un mefistofelico sortilegio, delle larve, delle ombre. Da quel giorno, quasi sempre, gli amici li avrebbero evitati, le finestre si sarebbero chiuse al loro passaggio, il telefono di casa avrebbe smesso di squillare. Sarebbero stati avvolti da una oscura coltre di nebbia e di silenzio, gravida di ulteriori sciagure. Cosa era mai potuto accadere, in quella notte stregata, in cui, da uomini, erano diventati insetti?
Ma com’è noto, non si trattò propriamente di un fulmine a ciel sereno, dal momento che c’erano stati già, nei due mesi precedenti, dei segnali molto chiari, a cui gli ebrei italiani, per non cadere anzitempo nella disperazione, avevano, in genere, volutamente scelto di non dare l’adeguata importanza.
Il primo era stata la pubblicazione, il 14 luglio dello stesso anno, del famoso manifesto della razza, firmato da molti pseudo-scienziati, alcuni di chiara fama (diversi di loro avrebbero poi proseguito brillanti carriere dopo la fine della guerra: gli italiani, come si sa, sono molto buoni, smemorati e inclini al perdono), che avevano volutamente scelto (probabilmente su mandato dello stesso Mussolini, ma certamente, in ogni caso, col suo consenso) di sondare le reazioni dell’opinione pubblica di fronte a un allineamento del regime, anche su questo piano, con l’ideologia e la politica del padrone tedesco.
Il secondo, l’uscita in edicola, il 5 agosto, del primo numero del quindicinale La difesa della razza, che rappresentava un singolare e grottesco intreccio di infamia, odio, idiozia, horror e crimine. In altre situazioni, si sarebbe anche potuto aggiungere la parola ‘umorismo’, ma era evidente a tutti che c’era ben poco da ridere. La cosa era serissima.
La copertina del primo e del secondo numero era già tutto un programma: tre grandi teste, in primo piano, una davanti all’altra. Quella più indietro proveniva un’antica statua di marmo, riproducente il volto chiaro e sereno di un giovane dai lineamenti perfetti, evidentemente un guerriero vincitore, un eroe, forse un dio, in atteggiamento raccolto, pensoso e riflessivo. L’eroe sembra stare ricordando le sue imprese passate, o forse sta organizzando le future. Con grande calma, la virtù dei forti. Davanti a lui, due altri volti, molto diversi, separati dal primo da una spada affilata. Uno è quello di un giovane africano, dai lineamenti marcati. A mio avviso, un volto molto bello, ma, certamente, l’opposto di quello dell’eroe, a cominciare dal colore nero.
E poi c’è la raffigurazione di un volto deformato, con un enorme occhio spalancato, senza pupilla, e un lungo naso, appuntito e con la gobba. Si trattava, evidentemente, della riproduzione di un bassorilievo medio-orientale, che, però, accanto alle altre due immagini, dà l’idea di appartenere a un uomo vero. Se, come opera d’arte, l’opera sarebbe stata certamente ammirata in un museo, come volto di un uomo vero, invece, intendeva, evidentemente, suscitare ribrezzo e paura. Non esistono uomini così. Ma, sulla copertina del giornale, c’è, quindi questi strani uomini ci devono essere, da qualche parte. Forse alcuni nostri compagni di studio, di lavoro, di sport, di gioco, anche se sembrano uguali a noi, in realtà non lo sono, sono, sotto sotto, come questi. Comprate, dunque, il giornale, vi aiuterà a riconoscerli, a smascherarli. E, dopo averli allontanati, per tutti voi sarà più facile avvicinarvi all’ideale altissimo del kalòskagatòs, alla purissima bellezza, alla gloria eterna dell’eroe-dio (romano? greco? ariano? Non ha importanza, l’importante è che, certamente, è l’opposto degli altri due).
Il messaggio era chiarissimo. Non fa niente se, magari, siete bruttini, bassini, un po’ pelosi e con la pelle olivastra. Basta che siate il contrario di quelli (meglio ancora, se dimostrerete la vostra lontananza da loro con atti concreti), ed è fatta, diventerete belli, puri ed eroici come lui. La spada vi separa dagli altri due, ma anche voi dovete fare qualcosa.
Direttore Telesio Interlandi, Segretario di redazione Giorgio Almirante, per lunghi anni, dopo la guerra, leader indiscusso di un importante partito politico, e ancora oggi punto di riferimento riconosciuto e ufficiale di una forza politica che aspira a guidare il Paese.
Ma quello che ci interessa, in questa sede, è il fatto che, su tutti i numeri della rivista, fino alla fine della sua esistenza (l’ultimo numero uscì il 20 giugno ’43), fanno bella mostra di sé, sulla copertina, dei versi di Dante. Tra la pubblicazione del primo e del secondo numero dovette accadere qualcosa, perché sul secondo, e poi su tutti i numeri successivi, i versi furono sempre “Uomini siate, e non pecore matte/, sì che il giudeo di voi tra voi non rida” (Par. V. 80-81). Sul primo, invece, erano questi: “Sempre la confusion delle persone/ principio fu del mal della cittade” (Par. XVI. 67-68). Il cambiamento, dal punto di vista dei redattori, fu certamente felice, dal momento che aiutava a capire, senza ombra di dubbio – ove mai ce ne fosse stato bisogno -, di chi fosse quel volto strano e deforme: no, non era un assiro, un babilonese, un ittita. Era il volto di un ebreo.
Cosa volevano dire quei versi (quelli del primo numero, e quelli di tutti gli altri)? Dante avrebbe concesso il “copyright”?
Esamineremo la questione nelle prossime puntate.
Francesco Lucrezi
(23 febbraio 2022)