Il mondo ebraico
e i demoni da affrontare,
una conversazione necessaria
Una cosa che mi capita di leggere sui social network quando esplode l’ennesimo scandalo di abusi sessuali e pedofilia nella Chiesa cattolica è che “almeno da noi queste cose non succedono”. C’è la convinzione diffusa, nelle comunità ebraiche italiane, che certi scandali non ci tocchino; avvengono solo nel «mondo fuori», forse perché “siamo una grande famiglia”, “ci conosciamo tutti” e i nostri conoscenti non farebbero mai nulla di male ai nostri figli, figuriamoci stupri, abusi sessuali, o, D-o non voglia, pedofilia.
La verità è un’altra: episodi di violenza sessuale esistono in tutti gli ambienti. Anche nel mondo ebraico, purtroppo.
Il mio è un articolo scomodo, vi avviso. Se non amate le conversazioni scomode, non leggetelo. Immagino già le critiche che riceverò. Molti diranno che i «panni sporchi» vanno lavati in privato; che sbandierare i propri difetti in pubblico potrebbe alimentare ulteriore antisemitismo, un problema reale che, come dimostrano i dati, esiste e non va ignorato. Nell’ebraismo esiste il concetto di chillul Hashem, la proibizione di profanare il nome divino; in molti la interpretano come una proibizione di diffondere fatti che potrebbero gettare vergogna sul popolo ebraico. Cosa dovremmo fare, quindi? Tacere gli episodi «sgradevoli» per paura di farci cattiva pubblicità? Sono interrogativi per nulla semplici.
Io credo sia fondamentale, anzi, vitale, abituarsi a tenere queste conversazioni, per quanto sgradevoli. Dobbiamo imparare ad affrontare i demoni anche nelle nostre comunità. Solo così potremo promuovere un’atmosfera di maggiore allerta e consapevolezza, prevenendo ulteriori violenze e forse addirittura salvando delle vite umane.
Per chi pensa che le violenze sessuali non esistano nel mondo ebraico, riporto qualche esempio recente; tutti esempi di cui si è parlato molto nella stampa ebraica americana e in quella israeliana.
Nel 2019, un gruppo di 38 ex-allievi del liceo della Yeshiva University di Washington Heights, a New York, ha fatto causa alla prestigiosa istituzione, accusando due rabbini di violenze e molestie negli anni settanta e ottanta. Stando al testo della causa, presentata presso la Corte Suprema di Manhattan, la scuola non solo non avrebbe protetto le vittime, ma avrebbe anche ignorato diverse segnalazioni di abusi, assegnando la presidenza ad uno dei due rabbini accusati.
Sempre nel 2019, il preside della scuola media modern orthodox Salanter Akiba Riverdale (SAR) Academy di Riverdale, a New York, è stato arrestato dall’FBI con l’accusa di possedere materiale pedopornografico e di aver costretto diversi studenti a inviargli foto esplicite. Il preside era un popolarissimo rabbino di 37 anni.
Nel 2021, l’amato rabbino charedí e autore di libri per bambini e ragazzi Chaim Walder è stato accusato da oltre 25 vittime di aver perpetrato violenze sessuali su minorenni, sia bambini che bambine, nel corso di 25 anni. Quando il tribunale rabbinico di Tsfat, in Israele, ha ascoltato le testimonianze delle vittime e l’ha dichiarato colpevole, il rabbino si è suicidato. Numerose personalità e testate del mondo charedì israeliano l’hanno pubblicamente difeso e giustificato.
>All’inizio del 2022, una studentessa anonima della Yeshiva University ha scritto un articolo raccontando di essere stata stuprata da un giocatore della squadra di basket dell’università; quando ha denunciato la vicenda all’amministrazione dell’università, il preside l’avrebbe indotta a firmare un accordo di non divulgazione, evidentemente più interessato a salvaguardare la reputazione della scuola che a proteggere altre potenziali vittime.
Questi casi più recenti hanno creato un’opportunità di tenere conversazioni difficili, complesse, dolorose, eppure fondamentali. Il caso Walder in Israele in particolare ha generato una valanga di articoli e post su Facebook e Twitter sul tema degli abusi sessuali, un argomento tabù che solo un decennio fa le nostre comunità facevano più fatica ad affrontare in pubblico.
Oltre al pericolo più ovvio, quello dell’esistenza di predatori sessuali anche nel nostro mondo, esiste un pericolo meno evidente, ma non per questo meno insidioso. Mi riferisco alla convinzione diffusa che chi conosciamo, chi fa parte delle nostre comunità, chi vediamo pregare accanto a noi al beit hakeneset, chi insegna la parashà ai nostri figli prima del bar-mitzvà, chi fa da madrich ai nostri figli ai campeggi estivi, sia per definizione innocuo. Mentiamo a noi stessi e ci convinciamo che, solo perché conosciamo qualcuno o la sua famiglia, quel qualcuno non possa essere un predatore sessuale.
Nell’immaginario collettivo, i predatori sessuali sono personaggi loschi che sbucano da vicoli bui e attaccano ragazze e bambini. Peccato che, secondo le statistiche, in 8 su 10 stupri il predatore sia un conoscente della vittima. I predatori si nascondono non in un vicolo buio, bensì dietro alla protezione di conoscenti che non dubiterebbero mai di loro.
Pensate ai predatori che vi ho elencato prima: due rabbini e insegnanti di un liceo; un popolare rabbino e preside di una scuola media; un rabbino e autore di libri per bambini; un giocatore di basket. Sono perlopiù leader comunitari amati, di cui i genitori delle comunità di cui fanno parte sono abituati a fidarsi quasi ciecamente. Chi dubiterebbe mai del rabbino, del preside, dell’insegnante? Sono le guide spirituali a cui affidiamo l’insegnamento delle nostre preziose tradizioni ai nostri figli. Se perdiamo fiducia in loro, di chi possiamo fidarci, allora?
Sarò cinico, ma penso dobbiamo stare attenti: una società che non parla di argomenti scomodi facilita un clima di omertà. Purtroppo, è spesso negli spazi che riteniamo più sicuri che i perpetratori sessuali trovano la libertà di attaccare. Ripeto, l’ultima cosa che voglio fare è chillul Hashem; desidero piuttosto intavolare una conversazione scomoda, estremamente dolorosa, con la speranza di creare un domani migliore per le future generazioni.
Simone Somekh,
Giornalista, scrittore e docente alla Touro University di Manhattan