L’inquinamento
Ci sono guerre motivate da ragioni economiche, spesso inconfessabili e – come tali – inconfessate, così come guerre che nascono da opposte concezioni del futuro proprio e di quello altrui, laddove quest’ultimo è visto come una minaccia per se stessi. Le due ragioni, insieme ad altre, sono spesso indistinguibili. Comunque, la violenza bellica le travolge con la sua scia di morti, distruzione, sangue e lacrime. Lasciando le popolazioni desolatamente inermi dinanzi al vuoto che le circonda. Ora, il conflitto russo-ucraino non ha sorpreso per nulla gli analisti dell’area, che da tempo andavano evidenziando i fattori di criticità presenti e in via di radicalizzazione. Semmai sono le dinamiche che hanno piegato il montare delle tensioni ad una “soluzione” bellica da parte di Mosca ad avere spiazzato, nei modi, le previsioni che erano state fatte, sospese come invece erano tra cautela di principio e pessimismo di massima. Soprattutto, è la modalità di una guerra al momento combattuta per molti aspetti come un conflitto campale tradizionale, quasi alle porte dell’Europa occidentale (e con i paesi della parte orientale in fibrillazione), a lasciare interdetti. Insieme alla diffusa percezione, in tutta plausibilità per nulla errata, che dietro la condotta di Vladimir Putin e del suo gruppo di potere vi sia uno smaccato calcolo egemonico, proiettato vero un tempo a venire, dove al contenimento del ruolo americano e al ridimensionamento di quello europeo potrebbe accompagnarsi un asse tra Russia e Cina destinato a pesare geopoliticamente. Comunque, al netto degli scenari planetari, sui quali amano molto esercitarsi i professionisti della chiacchiera sul web e nei social network, rimane il fatto che tra le diverse ragioni di una guerra demenziale vi sia non solo il conclamato cinismo del presidente russo – e dei suoi stretti sodali, accomunati da interessi rigorosamente di fazione, a partire da una ricchezza vergognosamente esondante, costruita anche sulla rapina dei beni pubblici – ma due opposte visioni del tempo a venire e della collocazione dei paesi dell’Europa dell’Est nei contesti delle future configurazioni di potere. Per sgombrare il campo, quella che si sta verificando sembra essere assai poco una belligeranza tra russi e ucraini, in quanto popoli contrapposti. I legami culturali, linguistici, familiari ma anche economici e sociali che intercorrono tra i due gruppi nazionali sono infatti tali da rendere quasi incomprensibile la contrapposizione armata se letta a partire esclusivamente da un attrito di vicinanza. Ovvero, da cause ascrivibili proprio alla reciprocità storica, al netto delle fandonie negazioniste putiniane. Semmai, il fuoco del contrasto «ruota ruota intorno a due idee diverse di comunità politiche promosse dalle odierne élite dei due Paesi» (Marco Puleri). Il tema, invero al momento assai ipotetico, dell’estensione dell’ombrello Nato a Kiev e ad altri paesi circonvicini, sembra quindi essere al medesimo tempo ancillare e pretestuoso rispetto, invece, alle concrete ansie nel merito dei destini politici dell’Europa dell’Est. In quanto – ed è questo un passaggio fondamentale – l’attuale leadership moscovita, da oramai più di un ventennio ancorata intorno alla figura plumbea di Vladimir Putin, sembra volersi rifare ad una accezione neoimperialista per puntellare e quindi garantirsi il proprio futuro. Dopo il decennio di spoliazione della società civile consumatosi negli anni etilici di Borís Nikoláevič Él’cin, i temi di un qualche ritorno di continuità con i “fasti” sovietici sono stati ripresi, in chiave manifestamente manipolatoria, dal putinismo. Anche per questa ragione, ogni manifestazione, al pari degli aneliti di piazza, verso una qualche timida vocazione nei riguardi dei processi di liberalizzazione politica e di pluralizzazione sociale sono stati stroncati sul nascere. Per la democratura putiniana è essenziale mantenere il controllo sui gangli del potere, annullando qualsiasi differenziazione che possa altrimenti minare il proprio auto-puntellamento difensivo. In Ucraina, per nulla terra di piena libertà ma spazio di ripetuti rivolgimenti, gli ultimi vent’anni sono stati accompagnati da segnali contrastanti e contrapposti, comunque contraddittori, dove tuttavia la faticosa ricerca di una via autonoma si è accompagnata ad un succedersi di crisi politiche. Ora, la questione non è data dal ricorso al tempo trascorso (con i richiami, reciprocamente contrapposti, e quindi speculari, al «nazismo» del proprio avversario) ma di come verrà organizzato quello a venire. Nel caso ucraino il tentativo di dare una qualche chance alle discontinuità con il passato autoritario di marca sovietica, assumendo aspetti e opportunità ancorati alla democrazia, è vissuta dal Cremlino (toh, parrebbe tornare in auge una categoria di analisi, la cremlinologia, altrimenti appassita) come una minaccia diretta ai propri interessi. Ovvero, a quelli di un gruppo di potere che non ha nessuna intenzione di mollare la presa. E che ben sa come il suo futuro sia legato alla subalternizzazione di quello dei paesi limitrofi. La partita di ciò che avverrà sul medio periodo si gioca comunque sul filo di quanto tempo ci vorrà affinché l’aggressione putiniana produca i suoi effetti. Poiché se l’Ucraina non dovesse cadere sotto le spire di un governo fantoccio, allora potrebbe essere la stessa Russia a subire un rinculo politico clamoroso. Despoti, autocrati, cleptocrati giocano d’azzardo. Si tratta di un banco al quale non è detto che debbano vincere sempre e comunque.
Claudio Vercelli
(27 febbraio 2022)