Storie di Libia – Daniel Mimun
Daniel Mimun, ebreo di Libia. Nato a Tripoli nel 1946. La presenza della sua famiglia in Libia, testimoniata da scritti e documentazioni, risale al 600/700, quando ancora non erano arrivati gli arabi. Vanta tra i suoi avi famosi rabbini. In casa si osservavano le mizvoth, le tradizioni religiose ebraico tripoline, ma in maniera meno ortodossa che non in altre famiglie. Il padre inoltre non incoraggiò mai l’apprendimento del dialetto arabo-trabelsi, parlato dagli ebrei tripolini. Voleva invece che imparassero l’arabo parlato dagli arabi. In casa si parlava italiano o francese, essendo la madre francese, nata a Marsiglia. Vivevano una vita agiata, grazie al padre che aveva il Pastificio Di Stefano a produzione industriale. Gli operai, che erano oltre 150 persone, erano tutti arabi. Di questi il padre conosceva i nomi, i patronimici e la condizione familiare di ognuno.
Le maestranze, invece, erano tecnici italiani, napoletani in massima parte. Daniel non aveva molti rapporti con la comunità araba, solo con gli operai della fabbrica e il personale di servizio. Se usciva insieme agli amici spesso incontrava gli arabi che li infastidivano e finiva col litigare. Una volta tornato a casa, il padre lo rimproverava aspramente come se avesse provocato lui la rissa. Era questa la valvola di sicurezza degli ebrei nella Diaspora, di tenere cioè sempre un profilo basso e non essere mai coinvolti in dispute con gli arabi. La certezza era che comunque sarebbero stati sempre considerati colpevoli nei confronti degli arabi, esponendosi così a reazioni senza che nessuno li potesse proteggere. Quindi, appena fu possibile, con la scusa degli studi partì per l’Italia. Non sopportava la vita a Tripoli. La sua infanzia e adolescenza sono state molto tristi, si sentiva soffocato dall’ambiente, non si poteva parlare, bisognava stare attenti a ciò che si diceva, parlare sottovoce.
Ricorda un episodio nel quale lui e sua sorella suonavano la Hatikva al pianoforte in sordina, la sera di Yom Hazmauth, e suo padre si spaventò, intimandogli di chiudere tutte le finestre per evitare di essere sentiti da eventuali passanti. Quindi nel 1964 partì per Milano per frequentare l’università. Vi rimase due anni, poi non trovandosi bene in quell’ambiente un po’ freddo e ostile, decise di cambiare regione e frequentare l’Università di Roma. Quando scoppiò la Guerra dei sei giorni e il pogrom del 1967 non si trovava a Tripoli, quindi non ha subito quel trauma direttamente. Seppe ciò che stava succedendo alla radio: arabi che ammazzavano gli ebrei, che bruciavano negozi, case, sinagoghe. Per avere notizie, si recò alla posta per telefonare a sua sorella Jasmine a Tripoli. Solo dopo molte ore riuscì ad avere la linea e lei lo rassicurò che lei e l’altro fratello stavano bene, ma che fuori c’erano incendi e raccontò quello che stava succedendo. I suoi genitori erano partiti giorni prima, per andare in vacanza in Grecia, quindi non erano in Libia. Dopo essersi un po’ tranquillizzato rientrò a casa e nei giorni seguenti non si preoccupò di quel che succedeva a Tripoli. A quel tempo conviveva con una ragazza spagnola, cattolica e aristocratica, che lo redarguì aspramente per la sua indifferenza verso ciò che stava succedendo, dopotutto la Libia era casa sua, la sua patria. Invece tutta la sua attenzione era rivolta a quanto succedeva in Israele, paese, a sua detta, di cui non conosceva nulla, non parlva la lingua, e con cui non aveva alcun rapporto. Queste parole lo colpirono al punto di pensare che la sua indifferenza fosse causata dal suo animo profondamente sionista. In realtà in nessun luogo si sentiva a casa sua. Dopo la laurea, lavorò per un anno, e infine decise di partire per Israele, nonostante gli si stesse prospettando la prospettiva di un’attività economica molto importante in Italia. Daniel era convinto che se avesse intrapreso questa attività solo per qualche anno, forzatamente si sarebbe trovato nella situazione di non poter mai voler abbandonare una impresa fiorente e molto fruttuosa. Non voleva, infine, dover vivere con la sensazione che ogni volta avrebbe detto “fra qualche anno andrò in Israele”, facendo così scorrere tutta la vita. Questa vita l’aveva già vissuta nell’adolescenza, quando in casa, per l’appunto, sempre si diceva: “Fra poco andremo in Israele”. Non ha avuto momenti né ricordi piacevoli in Libia, forse solo il mare, ma girando per il mondo ha trovato mari ancora più belli. Pertanto ai suoi figli, visto che i nipoti sono ancora piccoli, ha raccontato solo il sentimento di profondo disagio che provava in quel luogo, che lui chiamava la “terra dei cattivi”. Non ci stava bene e non vedeva l’ora di andarsene. Una cosa importante che ha trasmesso ai suoi figli è stato il bagaglio di esperienze che ha raccolto nel suo libro, che si intitola “La Storia della mia famiglia”, dove racconta storie e aneddoti di tutto ciò che si diceva e viveva in casa, una raccolta di fotografie della famiglia e degli oggetti rimasti, conservati da tempo e documenti della famiglia Mimun e di quella francese di sua madre, dalla fine del ‘700 ad oggi. Di tutta la liturgia conserva solo la tradizione della cena di Pesach, con la lettura dell’Hagadà, e la cena di Rosh Hashanà, intese queste due manifestazioni come cerimonie che trasmettono parte del retaggio familiare, ma non in senso religioso. L’unica cosa che tiene a tramandare è questo, l’appartenenza al popolo ebraico, le proprie radici. Ricordare sempre la propria identità di ebrei. Daniel è convinto che se non fosse tornato in Israele questa parte ebraica sarebbe sparita in lui in pochi anni. È andato a vivere in Israele per preservare, ricordare le origini e conservare la propria identità. Per poter vivere in un paese libero, senza paura di essere discriminato, abusato senza possibiltà di difendersi. Ha voluto vivere una “esperienza israeliana”, unica nel suo genere, che gli ha permesso di identificarsi con la propria nazione e di crescere figli liberi e indipendenti. Figli che hanno tutti contribuito allo sviluppo del Paese, servendo nella Difesa, crescendo fieri e costituendosi con famiglie proprie.
Non ha subito alcun trauma nell’abbandonare la Libia, anzi, ha solo provato un senso di liberazione e tranquillità nel lasciare per sempre quel paese tanto detestato sin da bambino. Non ha alcuna nostalgia di tornarci e si sente a casa solo in Israele. Per quanto riguarda i risarcimenti dei beni confiscati non ritiene fattibile la cosa. Perché guardandosi intorno nota che, anche negli altri paesi arabi dove la presenza ebraica era maggiore che non quella libica, nessuno ha avuto indietro nulla e di sicuro non succederà a loro. Fortunatamente il padre nel 1967, dopo la cacciata, riuscì a vendere il pastificio, ma non volle vendere gli altri beni, fiducioso che gli ebrei sarebbero stati risarciti. Come i tedeschi hanno risarcito le proprietà confiscate da Hitler, era convinto che anche gli arabi lo avrebbero fatto. È convinto che sia inutile darsi da fare per preservare i luoghi ancora rimasti in piedi, perché gli arabi, afferma, non hanno mai avuto nessun riguardo nei confronti della millenaria presenza degli ebrei già quando convivevano, figuriamoci ora. Neanche se cambiasse la politica in Libia sarebbe il caso di fare un monumento in memoria dei pogrom del 45/47/67 e della Shoah visto che non c’è più nessun ebreo che possa andare a visitarlo. Si darebbe solo un’altra opportunità agli arabi di distruggere un tale monumento per odio. Il ricordo non lo vede rappresentato da un monumento, ma da un’azione che si conservi nel tempo, tipo questa serie di interviste in fieri. Vedrebbe invece una stele, con tutti i nomi di coloro che sono caduti sotto le leggi razziali, le guerre, l’antisemitismo, le Shoah a Gerusalemme, non da altre parti, perché è convinto che l’antisemitismo è e sarà sempre vivo, in altre nazioni, come la storia insegna. Daniel è molto orgoglioso della sua Comunità e ritiene che gli ebrei tripolini si siano comportati in maniera eccezionale. Questo grazie al loro modo di pensare e di affrontare le avversità. Non si sono mai autocommiserati e neanche sono voluti rimanere come profughi. Arrivarono a luglio nei campi profughi in Italia e dopo sei mesi non c’era più neanche uno, di ebrei tripolini, in quei campi. Chi era partito, chi aveva intrapreso un’attività economica, chi aveva in qualche modo trovato un’occupazione. Non come i palestinesi, il suo atto d’accusa, “che sono rimasti profughi per cinque generazioni e vivono ancora dell’elemosina che ogni anno l’Onu elargisce loro”. Gli ebrei tripolini sono usciti dai campi profughi velocemente proprio per il loro spirito di reazione e di intraprendenza. Non hanno voluto sottomettersi a nessuno, dopo che lo avevano dovuto fare a lungo per sopravvivere in Libia. Non hanno chiesto nulla allo stato italiano. Si sono rimboccati le maniche e non si sono commiserati. Questo modo di pensare e di affrontare le cose va trasmesso. Daniel crede che se fosse rimasto in Libia avrebbe vissuto come un prigioniero, mentre andando via si è realizzato come uomo libero. Il messaggio che vorrebbe lasciare alle future generazioni, per le sue esperienze di vita, è che ognuno deve conoscere il passato della propria gente qualunque esso sia stato. Sapere chi sei è l’unica forza. E bisogna sempre essere orgogliosi delle proprie origini.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(28 febbraio 2022)