“Israele e la lotta al Covid,
ecco cosa abbiamo imparato”

“If you can’t fight them, join them”. Una questa espressione Arnon Shahar, il responsabile del piano vaccinale d’Israele, per descrivere quello che ci aspetta nei prossimi mesi. Una necessaria convivenza con un virus che, pur dato oggi in calo, non sparirà certo dall’orizzonte per un bel po’. “Ci sarà un’altra ondata, ci saranno altre varianti. Saranno più violente? Nessuno lo sa” ammette Shahar, volto popolare anche in Italia, durante un incontro online organizzato dall’Associazione ex Allievi e Amici della Scuola ebraica di Torino e dall’associazione culturale Anavim. “Salute pubblica e individuale: sfide e limiti tra scienza e ebraismo” il tema di un evento, ricco di stimoli, che ha visto anche la partecipazione di Armando Genazzani, che è professore di Farmacologia all’Università del Piemonte Orientale, e del rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni.
Una convivenza ineludibile, il pensiero di Shahar, “che dovrà vederci pronti su diversi piani: medico, logistico, filosofico, politico”. In questo senso il bagaglio di esperienze accumulato da Israele potrà rappresentare, ancora una volta, un modello globale. “Dalla prima alla quarta ondata il 98% dei ricoverati ha trascorso il periodo di malattia in comunità, case, alberghi. In questa quinta per meno dello 0,5% è stata prevista l’ospedalizzazione. Abbiamo cercato di privilegiare la terapia domestica, evitando il più possibile il ricovero in reparti Covid”, la sua analisi introduttiva. Un lavoro quindi intenso “sul digitale, anche attraverso le possibilità della telemedicina”. Gli effetti di questo nuovo approccio andranno molto oltre la stagione del Covid: “Nel 2015 – enumera Shahar – l’8% delle visite avvenivano virtualmente, nel 2021 siamo schizzati al 34%, quest’anno al 48%”. Indietro, viene facile immaginare, non si tornerà.
L’incontro è stata un’occasione per fare un bilancio di questi due anni con un respiro ampio. La decisione più difficile? Approvare la terza dose del siero, una scelta “oggi vista in retrospettiva come molto coraggiosa”. Israele è stato d’altronde il primo Paese “a rendersi conto del calo dell’efficacia, nel tempo, dei vaccini”. E poi ancora il semaforo verde a una quarta somministrazione “per tutelare le fasce più fragili”. Israele, rammenta con orgoglio Shahar, “era pronto a vaccinare già dal novembre 2020”. Una campagna che, come noto, ha subito preso una certa piega e un certo slancio. Tra i suoi punti di forza “un forte orgoglio nazionale, oltre alla capacità di lavorare sui media e con i leader delle singole comunità: volevamo essere i primi a iniziare e finire”. Shahar si dice contrario all’obbligo vaccinale. Salvo che per due categorie, “medici e forze di sicurezza”. Considera l’esistenza di No Vax come l’effetto, in parte, di “errori di comunicazione”. E riassume così il suo impegno: “Rifletto, guardo indietro e programmo il futuro”. 
La parola poi a Genazzani, che è anche membro del Comitato Tecnico-Scientifico dell’Agenzia Italiana del Farmaco. Riflessioni utili per cogliere dinamiche decisionali complesse partendo dalla valutazione in sede EMA del rapporto tra benefici e rischio assoluto e, gradualmente a scendere, tra benefici e rischio prima relativo e infine individuale. Al centro di questa ricognizione il tema delle evidenze, dirimenti “per fare scelte mediche oculate anche nel momento del bisogno”. Altre considerazioni a proposito del modus operandi. I rischi, la sua valutazione, sono in genere “sovrastimati con i vaccini” mentre “sottostimati con i farmaci”. Il beneficio dei singoli è, in ogni caso, da ritenersi prioritario “rispetto a quello della collettività”. Evidenze: la base di un metodo contrapposto “alle chiacchiere senza fondamento che, come abbiamo visto, spesso diventavano un fatto politico il giorno dopo”.
A concludere la serata il rav Di Segni, che ha esordito ricordando come nell’ebraismo, quando si tratta di salvare una vita umana, propria o altrui, “molti divieti passano in secondo piano”. A confermarlo la stretta attualità di queste ore, come nel caso dei bambini di un orfanotrofio ebraico di Odessa “che hanno viaggiato di Shabbat” pur di lasciare la città. Rischi e benefici. E ancora, salvezza individuale e salvezza di gruppo. L’ebraismo si interroga su questi temi da sempre: nel merito rav Di Segni ha citato un confronto avvenuto tra due importanti Maestri italiani del Settecento in materia di variolizzazione. Tra gli effetti della pandemia sul mondo ebraico contemporaneo “una fioritura di libri di Halakhah con sentenze su tutti gli argomenti possibili e immaginabili: e non solo nel merito dell’opportunità di vaccinarsi o meno”. Tra gli esempi fatti quello del primo Pesach in tempo di Covid, nel segno anche della proposta di alcuni rabbini israeliani di intraprendere una lettura della Haggadah via Zoom. Proposta poi ritenuta non praticabile dall’Assemblea dei rabbini d’Italia. Un argomento, in ogni caso, “che ha pigiato tanti tasti stimolanti e interessanti”.
L’incontro, moderato da Shemuel Lampronti, si è aperto con i saluti di Marta Morello e Giulio Disegni a nome rispettivamente di Anavim e Asset di cui sono presidenti. Una serata, ha detto Disegni, che si inserisce in una serie di attività sociali e culturali “che hanno l’obiettivo di sviluppare dibattiti su temi attuali”.

(Nell’immagine Arnon Shahar, ieri ospite di Asset e Anavim)