Agenti del caos

Bisogna prendere atto che così come il sistema delle relazioni internazionali è profondamente cambiato in questi ultimi trent’anni, del pari stanno cambiando le regole e, con esse, gli attori collettivi. Che non solo gli Stati ma anche e soprattutto quelli che li governano. È sempre molto difficile, e spesso incauto, definire una intera generazione di governanti sotto un unico cappello, una parola chiave che ne racchiuda le tante diversità. Tuttavia, va riconosciuto che oggi ci troviamo dinanzi ad una secca divisione tra coloro che intendono mantenere un sistema di rapporti al medesimo tempo rispettoso delle democrazie interne (laddove queste esistano) e delle sovranità altrui, e chi invece ritiene di potere trarre beneficio dal caos entropico che lo sgretolamento del vecchio sistema di relazioni può infine produrre. Un po’ come in quel condominio nel quale, venuto meno l’amministratore abituale e l’assemblea tradizionale, una sorta di mucchio selvaggio di elementi disordinati ma famelici intenda fare a pezzi il regolamento e propenda per rompere quel che faticosamente si era costruito per poi portare, nel proprio alloggio, quanto è riuscito ad assicurarsi delle parti comuni. L’esempio sarà banale ma non è poi troppo irreale. Abbiamo pensato che i veri agenti del caos fossero quelle forze extrastatuali, come il terrorismo, la cui natura è di mettere in discussione l’altrui legittimità minando alle radici la coesione sociale. In altre parole, coloro che dall’esterno cercano di depotenziare prima, e di sovvertire poi, i fondamenti dell’unione tra cittadini: legalità, liceità, integrazione, giustizia e libertà, ossia un insieme di elementi che confluiscono nella sovranità legittima, tale poiché rispettosa dei vincoli dell’accordo civile e con esso delle persone. Senza il quale, peraltro, il rischio di guerre civili (e militari) è invece dietro l’angolo. Evidentemente ci sbagliavamo. Poiché per l’appunto una “nuova” generazione di esponenti della politica si sta rivelando, un po’ ovunque nel mondo, volano della distruzione del patto sociale, ovvero di quell’insieme di rapporti senza i quali una società non può continuare ad esistere. Si tratta, per usare parole oramai inflazionate ma di senso comune, di sovranisti irrispettosi della vera sovranità (propria e altrui) e di populisti ostili alla democrazia. Si parano, ancora una volta, dietro discorsi roboanti e ridonanti, che evocano il «popolo» nel momento stesso in cui lo tradiscono. Lo fanno non dagli scranni dell’opposizione (che intendono invece distruggere) ma occupando, possibilmente, i posti di potere. Che intendono piegare a sé, non concependo nessuna alternativa alla propria persona. La «democratura» putiniana risponde a questo cliché negativo, manifestando fino a che punto la disposizione d’animo volta a puntellare il proprio potere possa spingersi nell’aggressione verso chiunque sia considerato come un limite o un ostacolo alla propria volontà. Non c’è neanche bisogno di scomodare la psicopatologia, posto che per fare i dittatori, o giù di lì, necessita comunque una particolare disposizione mentale, ispirata alla sociopatia. Putin non è però solo. Per l’appunto, con accenni e caratteri diversi, altri personaggi si sono manifestati in questi anni sulla scena pubblica, rivelando una vocazione intimamente eversiva. I tweet a favore dell’amico Vladimir di Donald Trump, quest’ultimo egocentrico sostenitore dello smantellamento delle regole della democrazia rappresentativa, costituiscono da tempo la testimonianza di una saldatura tra soggetti anche tra di loro diversi ma tutti accomunati dal bisogno di governare sulle macerie del sistema di garanzie collettive. Presentano il diritto (e i diritti) come un limite ad una presunta «libertà», che scaturirebbe solo dallo scatenamento della forza primigenia dell’individuo. Predicano il disordine, fingendo che possa essere un nuovo «ordine» più armonioso e profittevole. Delegittimano le istituzioni vigenti, praticando contro di esse una guerriglia verbale ad oltranza. Si avvalorano non di sostenitori ma di tifoserie la cui intransigenza è solo la maschera di una totale intolleranza. Disprezzano qualsiasi forma di pluralismo. Quante (e quali) siano le analogie con un passato di cui continuiamo a sentire la potente eco, ce lo può dire solo la ragione. La storia non si ripete mai; certi suoi processi, però, possono presentare alcune analogie con il presente.

Claudio Vercelli