“Ucraina, Israele apre le porte
(anche con il presidente Zelensky)”

“Israele”. A Kiev, nel luogo segreto in cui si tiene la conferenza stampa con Volodymyr Zelensky, il giornalista israeliano Itai Anghel cerca di attirare l’attenzione del portavoce del presidente ucraino. “Volevo assolutamente porre una domanda a Zelensky. Ho cercato gli occhi del suo portavoce. Eravamo 25-30 giornalisti ed era lui a decidere chi poteva parlare. Ha incrociato il mio sguardo e io a bassa voce ho scandito: Israele. ‘Cosa?’. Ho ripetuto: Israele. Lui ha fatto un cenno e, appena il presidente ha finito di rispondere a un collega, mi ha indicato: ‘lui, lui, viene da Israele. Fai la domanda’. E così ho chiesto dell’aiuto israeliano all’Ucraina”. La risposta, racconta a Pagine Ebraiche Itai, dopo una lunga giornata a Irpin, nella periferia di Kiev, ha avuto molta risonanza in patria. Da un lato Zelensky ringraziava gli israeliani per il loro sostegno (“Ho visto una bella immagine: ebrei avvolti nelle bandiere ucraine presso il Muro Occidentale a Gerusalemme. Pregavano e li ringrazio per questo”), dall’altra chiedeva maggiori aiuti al suo governo. “So che c’è stata un enorme reazione alle sue parole perché da noi è un tema molto sensibile. – racconta da Kiev il giornalista, con una lunga esperienza da reporter di guerra – Ci sono moltissimi ucraini e moltissimi russi da noi. La maggior parte sono contro Putin. Ci sono anche voci a favore, ma il dibattito è vivo. Ci sono considerazioni politiche, di sicurezza. ‘Non dobbiamo far arrabbiare Putin perché dobbiamo agire in Siria’, ma quando è troppo è troppo. – aggiunge Itai con fresche nella memoria le immagini di Irpin sventrata dai missili russi – Noi siamo persone. Abbiamo una coscienza. Siamo ebrei, siamo il Tikkun olam. Quindi cosa facciamo?”.
Con la sua telecamera, Itai sta documentando gli effetti di questa guerra. “C’è molto lavoro da fare. Siamo rimasti in pochi giornalisti sul terreno. Israeliani siamo ora in tre, la maggior parte sono rientrati. C’è poco tempo per pensare e quando riesci a respirare, diventi triste. Ti rendi conto che stai coprendo con la tua telecamera un capitolo oscuro della storia recente. Questa guerra è già orribile, ma la prospettiva di quello che potrebbe diventare è terrificante. Ho persino paura a dirlo, ma può essere un tale disastro”. La sproporzione che vede sul terreno, lui abituato a seguire i conflitti dalla Bosnia all’Iraq, è enorme. Però lo impressiona anche la resistenza. “Da un lato, hai una forza potente che nessuno può davvero affrontare, l’esercito russo. Dall’altro, hai persone che stanno davvero combattendo fino alla morte. Dopo 30 anni di esperienza sul campo puoi riconoscere negli occhi della gente la loro motivazione. Se reggerà. E questa gente combatterà fino all’ultima goccia del suo sangue”.
A stupirlo poi un altro elemento. Una novità quasi assoluta in questi lunghi anni di carriera passati a intervistare soldati, miliziani, terroristi e gente comune. “Non mi era mai capitato che il mio essere israeliano mi aprisse delle porte. Qui in Ucraina invece è così. Tutti, proprio tutti, quando dico che lo sono mi accolgono bene: soldati, miliziani locali, semplici civili. Per me è un regalo speciale. Soprattutto se penso ai lavori in Iraq o in Siria dove ero spaventato a morte che qualcuno potesse scoprirlo. Qui posso aprirci le conversazioni”. E a Irpin il fattore Israele gli ha fatto vivere e documentare un episodio che lui stesso definisce surreale. La città è diventata uno dei simboli della violenza russa. La foto del ponte distrutto con sotto centinaia di persone in fuga un emblema di questa guerra. “A un certo punto, nel bel mezzo di Irpin vedo un tizio che mi chiede: ‘da dove vieni?’. ‘Da Israele’. ‘Oh splendido!’. E poi mi spiazza e dice: ‘sai, dobbiamo dire todah a Elohim’. E io chiedo come faccia a conoscere quelle parole. ‘Sono un uomo di chiesa, noi le pronunciamo nelle nostre preghiere. Elohim e Adonai’. Io sono sotto shock. Perché immaginati questa conversazione con in sottofondo i boom dei bombardamenti e a poche centinaia di metri fumo scuro che sale in cielo. Io lo guardo e mi rendo conto che non ho una domanda da fargli. Sto filmando tutto. E poi di colpo lui inizia a cantare ‘Hava Nagila (Rallegriamoci)’. Penso ok, sono troppo esausto, forse sto avendo delle allucinazioni. Ma lui continua e la conosce tutta: Hava neranenah ve nis’mecha (Cantiamo e siamo felici)… Una situazione surreale nel bel mezzo di questa surreale guerra”.

Daniel Reichel

(Foto di Eddie Gerald, dal profilo Facebook di Itai Anghel)