Storie di Libia – Giulio Hassan
Giulio Hassan, ebreo di Libia. È nato a Tripoli il 4 giugno 1940. La sua famiglia non era molto osservante, rispettavano solo alcune tradizioni. Il sabato andavano al Tempio e in casa mangiavano solo kosher, italiano e non tripolino, perché sua madre era fiorentina mentre suo padre era nato a Tripoli. A lui mancava quella particolarità del profumo di spezie dei cibi che sentiva in casa dei suoi amici. A otto anni fu ospite alla fine di Pesach in casa della famiglia Mimun, per un pranzo in miniatura che si faceva per i bambini (Ciahlit) e gli piacque molto. Tornando a casa, chiese al padre come mai in casa loro non si preparassero pietanze così saporite e lui rispose: “Quando sarai grande e sposerai la figlia dei Mimun mangerai bene tutta la vita”. La sua infanzia trascorsa in Libia fu scossa da una tragedia familiare. Dopo la promulgazione delle leggi razziste suo fratello Carlo Nathan, il primogenito che non ha mai conosciuto, era stato mandato in Italia dai nonni materni affinché potesse andare a scuola (a quel tempo ai bambini ebrei questa possibilità era preclusa).
Il nonno Vittorio Ventura, ufficiale italiano pluridecorato, era un “discriminato” dalle leggi razziste. Purtroppo le cose cambiarono dopo l’8 settembre del 1943. Nella notte fra il 26/27 novembre 1943 i nazisti rastrellarono gli ebrei nascosti nel convento del Carmine a Firenze, dove si erano rifugiati, e portarono via la nonna Bianca Levi, la zia Lucia Ventura e suo fratello Carlo, e li deportarono ad Auschwitz, dove arrivarono l’11 dicembre 1943. Da quel momento persero le loro tracce. Solo una zia, Miriam, sopravvisse al rastrellamento, ma il trauma fu talmente forte che andò a finire in manicomio. Il padre Giuseppe fece ogni tipo di ricerca nella speranza che il figlio si fosse salvato, ma invano. Ad Auschwitz non fu registrato il loro arrivo, per cui si presume che siano stati uccisi immediatamente, appena scesi dal treno. Anche a distanza di anni sua madre non riusciva ad accettare questa perdita, colpevolizzando tutti di non aver fatto abbastanza per scoprire cosa fosse veramente successo. Ogni giorno piangeva disperatamente domandando di suo figlio, rinchiudendosi in camera a suonare il pianoforte per ore. Giulio e sua sorella Pia si consolavano a vicenda. Per sfuggire a tale strazio il padre rimaneva fuori casa fino a tardi, con la scusa del lavoro, e Giulio preferiva stare per ore fuori in strada, a giocare con i suoi amici. Crearono delle bande formate da ragazzi ebrei, italiani e arabi, tipo quelle dei Ragazzi della Via Pal, lottando tra di loro per dimostrare quale fosse la più forte. Per anni desiderò andarsene da Tripoli. Solo da adolescente riuscì a fare delle brevi vacanze a Tunisi: lì le ragazze erano emancipate e c’erano locali notturni. Ma il suo grande desiderio era quello di andare in Israele. Ogni anno i suoi genitori li mandavano in un campeggio italo-ebraico, e un giorno Giulio decise di approfittare della partenza per l’Italia per poter scappare. Ogni volta che andavano in campeggio venivano dati a ciascuno di loro un assegno di 50 sterline e 10 sterline in contanti: chiese pertanto a sua sorella di dargli anche la sua parte di soldi e di tornare a casa, mentre lui sarebbe partito per Israele. Il rabbino del campeggio gli fece cambiare idea dicendogli che se fosse partito in quel momento per Israele, non sarebbe stato in grado di combinare nulla. Gli domandò cosa volesse fare nella vita e lui rispose: l’ingegnere. Allora gli suggerì di diventare ingegnere e poi di trasferirsi in Israele. Così tornò a Tripoli e a 18 anni iniziò a frequentare Jasmine Mimun e in seguito si fidanzarono. Giulio partì per Milano dove frequentò il Politecnico, poi alcuni mesi prima che si laureasse si sposarono, nel marzo 1966. Dopo la laurea decisero di tornare a vivere a Tripoli, arrivando nel gennaio 1967. Giulio iniziò a lavorare come ingegnere con suo padre, in un progetto urbanistico di case popolari per arabi, su terreni da lui comprati, perché a quel tempo essi erano molto poveri e non avevano case, e spesso vivevano in palazzetti in più famiglie. Lui aveva il compito di lottizzare i terreni e picchettarli. Il rapporto con la comunità araba era abbastanza tranquillo, erano una famiglia molto stimata anche grazie a questo progetto. Quando scoppiò il pogrom, il 5 giugno del 1967, Giulio sarebbe dovuto andare a picchettare dei terreni, ma essendo stato il suo compleanno il giorno precedente ed avendo festeggiato e bevuto abbondantemente fino a tarda notte, non era riuscito ad alzarsi. Ricevettero una telefonata da un amico, che li avvisò di cosa stesse succedendo, dei tumulti nelle strade, dei negozi e delle case degli ebrei incendiate, raccomandandogli di chiudersi in casa. Avevano immaginato che prima o poi sarebbe successo qualcosa. Già da tempo si sentiva qualcosa nell’aria. Giorni prima, ad un funerale, al momento della tumulazione della salma un gruppo di arabi lì vicino, guardandoli, fecero il segno dello sgozzamento. Presentarono così i passaporti all’ufficio apposito, per avere il visto d’uscita dal paese e partire per l’Italia. Come dono di nozze avevano ricevuto dai genitori di Giulio una villetta che avevano ristrutturato e arredato ed erano pronti a trasferirsi. Era stata decisa la data del 5 giugno. Quel giorno scoppiò la Guerra dei Sei Giorni, pertanto non poterono traslocare e continuarono ad abitare in casa dei genitori di sua moglie, che in quel periodo erano in vacanza all’estero. L’appartamento aveva una porta blindata e c’erano le inferriate alle finestre che davano sulle scale. Un ottimo posto per proteggersi da un possibile attacco della folla. Giulio si era accordato con i suoi due cari amici, i fratelli Febi e Simone Meghnagi, che se ci fossero stati disordini in città si sarebbero potuti rifugiare a casa con loro in via Giacarta. La strada, essendo un po’ isolata, era ancora tranquilla. I suoi genitori e la sorella abitavano invece in Giaddat Istiklal, proprio in centro, dove erano iniziati i saccheggi e gli incendi, sopra ai negozi che bruciavano. Dopo la telefonata di sua sorella in lacrime, coi due amici ben armati di catene di ferro e spranghe salirono in macchina per andare a prenderli e portarli da loro; i genitori Giuseppe ed Elsa ,il fratello Mario, la sorella Pia col marito Shalom Vaturi ed il figlioletto Dario, di tre anni e mezzo.
Fortunatamente in precedenza avevano fatto un bel po’ di provviste e comprato taniche di olio che, se fossero stati attaccati, avrebbero scaldato e gettato addosso agli assalitori. Ormai erano in tanti nell’appartamento, ma non mancò mai nulla anche grazie ad un amico italiano del padre, che ogni giorno portava loro la spesa. E quanto avevano in abbondanza lo portavano in macchina alle altre famiglie ebraiche serrate in casa che non potevano uscire, sempre armati per difendersi. Seppero che c’erano gli esami di maturità alla scuola italiana, ma gli ebrei non potevano andarci per paura. Allora Giulio si consultò con i suoi due amici e decisero che avrebbero scortato i ragazzi che dovevano sostenerli. Così iniziarono a telefonare alle varie famiglie, dicendo che loro erano disposti ad andare a prendere i ragazzi a casa, portarli a fare gli esami e poi riportarli. Dopo una decina di telefonate la compagnia telefonica, che era controllata dalla polizia, gli tagliò la linea. Nel frattempo, grazie al suo amico Simone Meghnagi che dirigeva un’agenzia di viaggi, riuscirono a far partire molti ebrei, anche grazie a Tarantino direttore allora dell’Alitalia. Tutti riuscirono a lasciare la Libia, meno Jasmine e Giulio. Un loro caro amico, Omero Orsi, si recava quasi tutti i giorni all’ufficio passaporti per chiedere se il loro visto fosse pronto ma ogni volta gli veniva risposto che non lo era. Così un giorno decise di presentarsi al Capo dell’ufficio stesso, che egli conosceva, e gli chiese come mai i passaporti di Giulio Hassan e di sua moglie non erano pronti, mentre a tutti gli ebrei era concesso partire. Così scoprì che non li avrebbero mai avuti, perché Giulio Hassan era secondo loro un collaboratore se non addirittura un ufficiale israeliano. Omero si meravigliò nel sentire quelle parole e lo rassicurò dicendogli che conosceva Hassan da molti anni e non era né un collaboratore né tantomeno un ufficiale israeliano. Così riuscì a portar loro i passaporti con il visto. E poterono partire anche loro. Dell’esperienza vissuta del 1967 a Tripoli, ciò che ha trasmesso ai suoi figli e nipoti sono stati i ricordi negativi e i positivi. Ma la cosa più importante per lui è stata quella di avere insegnato ai suoi ragazzi a non giudicare mai il prossimo secondo lo stato sociale o la religione, perché ci possono essere arabi, ebrei, italiani o di altra nazionalità sia buoni che cattivi. Per quanto riguarda l’osservanza delle tradizioni religiose tripoline, a parte il mangiare kosher e l’andare al Tempio il sabato, per il resto non sono mai stati molti osservanti. Per loro la sinagoga non doveva essere necessariamente tripolina. Andavano bene anche le altre che erano più vicine a casa. È molto felice in Israele perché solo lì si sente a casa. Si è molto integrato nel modo di vivere israeliano ed è anche molto attivo nella società. Si considera un “israeliano fanatico di destra”. La famiglia non si è dispersa, alla fine sono tornati tutti in Israele, tranne la sorella che vive ancora a Roma.
Pensa che non sia tempo perso lottare per l’ingiustizia fatta agli ebrei tripolini, anche la confisca dei beni. Anzi bisogna darsi da fare affinché non si perda il ricordo di ciò che hanno subito in Libia. Occorre usare tutti i mezzi possibili, scrivere, cercare di parlare con i libici, anche attraverso queste interviste. Perché finché non si renderanno conto degli sbagli commessi contro gli ebrei, non riconosceranno mai di aver rubato ciò che non gli apparteneva, e non capiranno l’importanza di dover risarcire e restituire tutto. Giulio crede che sia inutile preservare i luoghi sacri rimasti ancora in piedi e secondo lui dovranno essere gli arabi a dover fare qualcosa in memoria degli ebrei. Anche se cambiasse la situazione politica in Libia, sono sempre i libici che dovrebbero pensare di erigere un monumento in ricordo dei pogrom del 45/48 e 67 e della Shoah, oltre a fare un museo in memoria della presenza millenaria degli ebrei. Di sicuro la cultura con i suoi valori, la filosofia di vita ebraico tripolina, può insegnare la generosità e l’onestà. Certamente quando incontra uno di loro, per esempio una donna tripolina, sa per certo che è una persona perbene e onesta. In Libia è convinto che non si sarebbe potuto realizzare come ingegnere, cosa che invece ha potuto fare in Israele. Una cosa importante che ha compreso nel tempo e che potrebbe trasmettere alle generazioni future è che la religione è la vita, ma non deve essere l’unico scopo della vita. Un ebreo da solo è impotente e inerme, ma in gruppo è forte. Gli ebrei devono rimanere uniti, essere un’unica Comunità. Se si pensa solo a se stessi, sostiene, è finita.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(7 marzo 2022)