All’aeroporto, tra chi arriva e chi aiuta
La ferita dei profughi d’Ucraina 

Aeroporto internazionale Ben Gurion, notte fonda, giorno dodici dall’inizio della non-Terza Guerra Mondiale. Calma apparente. Al passaggio dei passaporti, il secondo solo perché a uno intermedio ci han fatti passare senza neanche guardarci, un impiegato con i capelli bianchi, svelto e gentile, controlla i nostri foglietti di entrata in Israele e con un gesto ampio del braccio ci dice “bevakashà”, prego. Una collega meno esperta e più tesa non si accorge che eravamo già stati controllati, io, marito e neonato in passeggino: mi si pianta davanti e chiede con chi sono. Il collega la rassicura, e lei si fa da parte. Ci metto qualche secondo a realizzare che con il mio quasi metro e ottanta, la pelle chiara, uno zainetto e un passeggino, sono automaticamente sospetta, in questi giorni terribili, in un luogo che fa da anticamera a casa mia: il mio solito, un tempo abusato, caro vecchio BGN. Proseguendo la trafila per uscire finalmente all’aperto, piano piano diventa sempre più chiaro che al nostro aeroporto arrivano ucraini in fuga, non so dire quanti e se ebrei o meno, se in possesso di un parente almeno nel paese, e con quali prospettive di vita, lavoro, per i prossimi giorni, mesi, anni. Nella sala per il controllo passaporti dei non israeliani, poco più avanti, è comparso un punto di raccolta che non avevo mai visto, con zona per l’attesa piena di persone. Al ritiro valigie comincio a vedere volontari con tesserino di riconoscimento tenuto sul petto da una striscia arancione brillante, e visto il primo se ne notano poi un numero notevole sparpagliati per tutto il percorso degli arrivi. Alcuni sono in divisa da paramedici, altri in borghese; giovani e meno giovani, uomini e donne, religiosi e laici. Un volontario paramedico mi dice che con l’organizzazione Hatzolah fanno turni di massimo una settimana, perché quel che si vede sui confini dell’Ucraina è troppo pesante per i volontari, devono alternarsi. Lo farebbero comunque, di alternarsi, probabilmente, visto che per aiutare lasciano famiglia, lavoro, e partono.
Nell’area dove si fanno tamponi per il Covid, perché maledizione, in tutto questo siamo ancora in mezzo ad una pandemia!, vedo un gruppo di persone raccolte intorno a una giovane con i capelli rossi spettinati e la voce brillante che chiama nomi e dà istruzioni. Ha il tesserino e la striscia arancione e parla una lingua che nella mia ignoranza avrei collocato come russo, ma è sicuramente ucraino. E le persone intorno, sono stanche e confuse e ho pudore a guardarle troppo: non voglio che nemmeno per un attimo si possano sentire troppo osservate. Passo avanti, mi fido del sistema e dei volontari, della loro sensibilità e del loro senso pratico. Ore 02:05 del mattino: io esco e vado a casa e domattina ricomincia la mia routine. I nuovi arrivati chissà dove vanno e a fare cosa.

Daniela Fubini