Pace e irenismo

Torno sul tema “pace”, intorno al quale su queste colonne si è opportunamente soffermata nei giorni scorsi Anna Segre. Che la pace sia il bene centrale da ripristinare prima possibile e che essa rappresenti l’obiettivo di fondo soprattutto ora, da quando l’Ucraina è sconvolta dalla guerra di Putin e si profila il fantasma speriamo lontano ma tangibile di un terzo conflitto mondiale, è un fatto giusto e incontestabile. Ma che cosa vuol dire davvero la parola “pace”? Certo pace non è semplicemente assenza di guerra aperta, non è solo il silenzio dei cannoni. Come affermava Hobbes, nello stato di natura – cioè in una condizione priva di accordi e di leggi – guerra è sempre; anche senza un conflitto dichiarato o dopo la fine delle ostilità la “guerra di tutti contro tutti” continua sotterranea a mietere le sue vittime (costantemente i più deboli). In contrasto con la pace apparente, la parola ebraica “shalom” esprime il pieno significato del termine nella sua stessa etimologia: “shalem” vuol dire infatti “completo”, “pieno”; pace è qualcosa che dà senso alla vita individuale e collettiva perché rappresenta un bene completo, la realizzazione di un’esistenza comune di soddisfazione e di pienezza.
È non solo giusto ma sacrosanto ricercare la pace per l’Ucraina, tormentata da una guerra di conquista, oppressiva e a senso unico. Ma ciò non a qualsiasi costo. Vittima di un’aggressione premeditata autoritaria e omicida, essa ha il diritto/dovere di difendersi anche con le armi, se per responsabilità non sua è in corso una ricerca del dominio attraverso questa metodologia in sé detestabile. Ha cioè piena legittimità a realizzare una guerra di resistenza per salvaguardare la propria sovranità e la propria libertà; così come l’Unione Europea e l’intero mondo occidentale hanno il dovere di sostenerla con effettivi aiuti anche bellici in questa sua lotta per sopravvivere.
L’impegno e le manifestazioni per la pace, cioè, hanno un senso solo se sono declinate con uno sforzo per mantenere/ripristinare la democrazia, la giustizia, la libertà. In questi giorni di terrore russo in territorio ucraino mi paiono sbagliate e un po’ ottuse (e forse persino egoistiche) le esplosioni di irenismo radicale proprie di tante assemblee di piazza e marce “per la pace” in sé, cioè per una pace pur che sia. Non è più sensato marciare idealmente al fianco di una Ucraina libera, esprimere solidarietà alla sua battaglia per il diritto alla vita e all’autodeterminazione? L’Ucraina certo non sarà libera se per far tacere i cannoni russi dovrà, come pare, sottostare all’obbligo di “neutralità” e non potrà scegliere di far parte della Nato; se cioè le sarà tolto il diritto di decidere a quale visione del mondo aderire. Avremo allora il coraggio di chiamare “pace” questo diktat putiniano? Eppure l’imperativo della “pace a tutti i costi” è molto diffuso da noi, a tutti i livelli. Poco fa passeggiando vicino a casa guardavo dall’esterno le finestre di una scuola elementare: la parola pace scritta in più lingue si intrecciava con simboli anti-bellici in una decorazione molto nobile e suggestiva; ma poco rispondente alla reale situazione ucraina.
Allontanandoci dal terreno di questo disperato combattimento per l’esistenza e volgendo lo sguardo verso noi stessi, resta da chiedersi il perché della nostra automatica deriva verso un irenismo senza condizioni. La risposta la troveremmo forse in una sorta di autoanalisi sociale. La morte delle ideologie, la fine della guerra fredda e la paura incontrollata di un suo ritorno “caldo”, la volontà di non schierarsi, accanto al terrore che possa incrinarsi o rompersi il guscio protettivo che ci siamo costruiti nel nostro apparentemente tranquillo Occidente sono forse concause intrecciate di un acritico inneggiare alla pace in sé. Ma tutto ciò non è indice evidente di un nostro “horror vacui”, del diffuso smarrimento di chi preferisce comunque non esporsi oltremisura di fronte all’ignoto? L’inno “pace pace pace” non è forse il nostro vuoto privilegio di occidentali oggi (ancora) liberi da autentici problemi di sopravvivenza?
David Sorani

(8 marzo 2022)