Un gigantesco gioco d’azzardo

Yehuda Bauer sostiene che la Shoah non possa essere considerato un fenomeno unico in quanto un domani se ne potrebbero verificare altri uguali o peggiori. Considera appropriato però asserire che la Shoah sia un caso “unprecedented”, unico per quanto concerne il paragone con gli altri genocidi. La Shoah è Shoah, gli altri – per Bauer – sono genocidi tout court. Per Bauer, i quattro elementi “che rendono l’Olocausto diverso dagli altri genocidi” sono: totalità, globalità, ideologia e totale umiliazione. Se si guarda al presente e al futuro, l’attuale prospettiva, nel contesto della crisi ucraina, di scatenare una guerra nucleare, dimostra quanta ragione avesse. Preoccupa il vecchio detto “La pistola è uguale al portafoglio, si tira fuori solo per usarla, tutto il resto è da imbecilli.”
Vediamone i contorni: il 28 febbraio u.s. l’Associazione bundista uruguagia Dr. Jaime Zhitlovsky ha diffuso una sua dichiarazione in cui dice che “l’invasione dell’Ucraina è illegale e dev’essere condannata” e soggiunge che “condanniamo anche la politica imperialista della Nato e degli Stati Uniti”, forse alla luce delle numerose colonie che possiede la Nato, nelle quali amiamo trascorrere il tempo libero. Inutile a dirsi, dopo quel possente comunicato, il mondo non è più lo stesso di prima. Tuttavia, quel testo qualcosa di vero e radicato tradisce, perché la Nato, se non attenta affatto alla sicurezza della Russia, di sicuro attenta (si è detto) al suo orgoglio. Inoltre, la Russia come arcipelago ovvero come impero (si è pure detto) non saprebbe vivere senza l’Ucraina. Infine (a nostro avviso) non si può trascurare il contrasto fra l’immensa simpatia di Vladimir Putin ed il brusco salto verso il recente caso da Professor Dent: non rileva tanto domandarsi se vi fosse una tale convivenza quanto prenderne atto.
La proiezione del proprio pensiero sulle vicende esterne, però, non è un monopolio icufista/bundista. Il nostro modo di pensare è spesso modulato sugli anni giovanili, nei quali la realizzabilità dei nobili ideali non era una variabile contemplata.
Quando è implosa l’Unione Sovietica, il popolo russo sentì che la terra crollava sotto i suoi piedi e sarebbe stata sufficiente una lettura anche frettolosa di Erich Fromm per capirne le cause. Più rilevante ancora è prendere atto (secondo chi ebbe ad approfondire il periodo di interregno) che la percezione dei problemi si dimostrava stranamente indipendente dall’andamento dell’economia. Queste connotazioni, quanto meno ad avviso dei politologi, troveranno conferma anche negli anni a venire e, peggio ancora, anche nel momento che stiamo vivendo. Risulterebbe che nel periodo di Yeltsin, rintanatosi con la c.d. “famiglia” nelle lussuose sedi del potere, il popolo russo, abbandonato a sé stesso, nutrisse una struggente nostalgia non tanto per il comunismo quanto per lo smarrito ruolo di superpotenza dell’URSS, quando si è stagliato all’orizzonte Vladimir Putin, affidabile perché non accettava le “tangenti” e per non aver abbandonato il suo vecchio mentore Anatoly Sobchak. La comparsa dell’individuo, in questo caso Putin, proprio perché è quanto di più antimarxista possa esservi, è difficile da accettare in una cultura universale basata su tre ebrei.
Nel 2014, in occasione dell’annessione russa della Crimea, il Presidente Obama dichiarò: “Non stiamo entrando in un’altra Guerra Fredda. Dopo tutto, a differenza dell’Unione Sovietica, la Russia non guida nessun blocco di nazioni, nessuna ideologia globale. Gli Stati Uniti e la NATO non cercano alcun conflitto con la Russia. In effetti, per più di 60 anni ci siamo riuniti nella NATO non per rivendicare altre terre ma per mantenere”. Un profeta: infatti la guerra attuale è tutt’altro che fredda.
A seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, l’efficacia delle sanzioni prospettate, pur indispensabili come unica alternativa alla guerra, andrà valutata alla luce della loro percezione da parte del popolo russo e del suo establishment. Secondo Masha Gessen sono inutili ma vanno imposte e, se si bada bene, non c’è nulla di contraddittorio nel dirlo. Cosa vuole il popolo russo? Noi, rintanati in ideali salotti e con le illusioni che derivano da infinite e reciproche rassicurazioni, continueremo a disquisire di Antonio Gramsci ignorandone però gli insegnamenti sulla potenza delle culture nazionali. La cultura russa è fatta di orgoglio nazionale, e andare a caccia di aggettivi non è necessariamente un esercizio intelligente. Se così non fosse, non si spiegherebbe la rimozione del recenziore percorso della nostalgia, quando compie un duplice salto all’indietro, saltando il comunismo per approdare addirittura agli Zar (in un periodo, però, in cui non esisteva la bomba atomica). Se noi ebrei ricordiamo giustamente Re David, dobbiamo capire che altri cullino i loro ricordi, soprattutto se il paragone non regge. È dura, è inaccettabile, soprattutto nella nostra società in cui per anni i giornali ricorrevano al tormentone “sdegno e sgomento” (ora se ne sono scordati). È dura, ma siamo qui per studiare.

Emanuele Calò, giurista

(8 marzo 2022)