Periscopio – Confusione

Abbiamo detto, la volta scorsa, che avremmo spiegato in che senso l’apposizione, in epigrafe sul primo numero de La difesa della razza (e solo sul primo: poi la scelta sarebbe cambiata) di due versi del XVI Canto del Paradiso (67-68: “Sempre la confusion delle persone/ principio fu del mal della cittade”) sia stata un’operazione manipolatoria e fuorviante, che avrebbe certamente suscitato la massima indignazione del poeta, il cui pensiero viene non solo stravolto, ma trasformato esattamente nel suo contrario. La spiegazione è semplice, non ci sarebbe neanche bisogno di illustrarla, ma è utile cercare di interpretare i perversi meccanismi logici adoperati dagli pseudo-giornalisti, tanto simili a quelli messi in essere dai razzisti e gli antisemiti di tutti i tempi.
Il XVI Canto, com’è noto, rappresenta il terzo della cd. trilogia di Cacciaguida, nella quale Dante approfitta dell’incontro col capostipite del suo casato per fare delle varie considerazioni sulla storia della sua famiglia e della città di Firenze e, più in generale, sull’andamento delle cose umane. Il poeta invita l’avo (nato nel 1091) a spiegare com’era, ai suoi tempi, la loro comune città, in modo da potere comprendere le ragioni della sua evidente decadenza morale. In particolare, gli chiede delle informazioni sulla composizione demografica della Firenze di allora: “ditemi de l’ovil di San Giovanni/ quanto era allora”, una visione idealizzata e pastorale della città del passato, paragonata a un ovile, custodito dal suo pastore (il santo patrono Giovanni).
Cacciaguida risponde con precisione, dicendo che, in quell’epoca, la popolazione fiorentina sarebbe stata di un quinto rispetto ai giorni del viaggio ultraterreno di Dante (del 1.300) (quindi, è stato dedotto, circa 18.000 anime, rispetto alle 30.000 del momento della narrazione). Solo quaranta famiglie nobili avrebbero vissuto a Firenze, la cui vita sarebbe stata segnata da armonia, pace e concordia. Ma poi le cose sarebbero peggiorate, allorché le genti del contado si sarebbero trasferite in città, portando a un rapido decadimento dei suoi valori e costumi.
Verso questi fiorentini di nuova acquisizione Cacciaguida usa parole violente: come sarebbe stato meglio che quelle genti fossero rimaste fuori dai confini della città, “che averle dentro e sostener lo puzzo/ del villan d’Aguglion, di quel da Signa,/ che già per barattare ha l’occhio aguzzo!”. Il riferimento è a due personaggi verso i quali Dante aveva personali ragioni di risentimento: Baldo d’Aguglione (giurista che partecipò alla formulazione dell’amnistia decretata nel 1311 a favore dei fuorusciti ‘bianchi’, dalla quale furono esclusi quelli di simpatie ghibelline, come Dante) e Fazio dei Morubaldini da Signa (che, come esponenti dei ‘neri’, sarebbe stato anch’egli responsabile dell’esilio del poeta). Dante, per bocca di Cacciaguida, non dichiara, però (e in questo, forse, non dimostra una grande onestà intellettuale) quelle che, secondo ogni verosimiglianza, erano le vere ragioni del suo disprezzo, limitandosi a ricordare che il secondo sarebbe stato responsabile di baratteria (ossia di peculato). Di Baldo non viene detto che era stato condannato, nel 1299, per dolosa alterazione di atti pubblici, probabilmente perché lo si riteneva un fatto di pubblico dominio.
Cacciaguida spiega la ragione storica di questo fenomeno di ingrossamento delle popolazioni urbane (che non avrebbe riguardato solo Firenze), da ravvisare nel fatto che i tenutari dei castelli extraurbani sarebbero stati privati, per colpa della Chiesa, della protezione dell’imperatore, venendo così indotti a trovare rifugio nelle città. E ricorda poi l’episodio che “puose fine al vostro viver lieto” (138), ossia la mancata promessa, da parte di Buondelmonte dei Buondelmonti (anch’egli, con la sua famiglia, proveniente da fuori città), di sposare la figlia di un Amidei, per prendere invece in moglie una giovane della casa dei Donati. Da tale fatto sarebbe scaturita la lunga faida tra le due opposte fazioni dei guelfi (seguaci dei Buondelmonti) e i ghibellini (sostenitori degli Amidei).
Queste brutte cose, ai tempi dell’‘ovile’, non accadevano.
È in questo contesto che si inseriscono i versi citati. L’arrivo di gente forestiera (“la confusion delle persone”) provoca il “mal della cittade” solo per i comportamenti malvagi dei nuovi arrivati, che corrompono l’idilliaca serenità dell’‘ovile’, nel quale tutti avevano modo di conoscersi di persona. In Dante la responsabilità è sempre – sempre – personale, Baldo, Fazio e Buondelmonte hanno portato danno con i loro comportamenti, non certo per il loro essere forestieri. È pericoloso fare entrare a casa tua gente che non conosci, questo è il senso. Una cosa facilissima da capire, per chi dedichi almeno un paio di minuti a leggere il Canto. Ma, ovviamente, fermandosi a leggere i due versi soltanto sulla copertina dell’immondo giornale, il lettore è indotto a credere che Dante pensasse tutt’altro, e che considerasse la presenza degli ‘stranieri’, di per sé, inquinante e malefica.
Ma quali stranieri, poi? Nel 1938 arrivavano forse in Italia, come oggi, i barconi degli immigrati clandestini? Le strade d’Italia erano forse piene, come oggi, di africani, cinesi, albanesi, arabi?
No, gli ‘stranieri’ erano gli appartenenti a un’unica categoria di persone, l’unica, forse, a potere vantare un pieno diritto di cittadinanza, dal momento che la sua presenza, nel Paese, durava, ininterrottamente, da almeno due secoli prima dell’era volgare.
Ma, sul punto, c’è ancora molto da dire. Lo faremo nelle prossime puntate.

Francesco Lucrezi