L’intervista al leader dei rabbini
che operano nei Paesi islamici
“Zelensky, una storia che ispira”

“Non lo chiamerei un ‘moderno Maccabeo’, come alcuni hanno scritto, perché non credo che sia qualcosa che lo definisca davvero o in cui lui abbia piacere a riconoscersi. È comunque emozionante che figure ebraiche possano oggi assurgere al ruolo di leader, conquistando la ribalta anche in Paesi dove la vita, in passato, è stata spesso travagliata. Quella di Zelensky è una storia che ispira e che scalda il cuore nel grande dramma di queste settimane”.
Risponde da Istanbul rav Menachem Mendel Chitrik, rabbino capo ashkenazita della città e leader dell’alleanza dei rabbini nei Paesi islamici. Un network nato nel 2019, alla vigilia di grandi stravolgimenti nella regione mediorientale, con l’obiettivo di fornire supporto per ogni possibile necessità (partendo da casherut e altri servizi religiosi di base). Un obiettivo dichiarato: consolidare e rafforzare il più possibile una presenza ebraica, andando anche oltre il solo bacino del Mediterraneo positivamente “contaminato” da millenni di presenza. Da Alessandria d’Egitto a Dubai, da Casablanca a Baku, la rete è estesa. E in azione, spiega il rav a Pagine Ebraiche, “non solo con le belle parole del dialogo, che non sempre portano a risultati, ma attraverso l’esperienza concreta”.
Dialogo è una delle parole chiave di questi giorni. Proprio la Turchia, insieme a Israele, si è candidata a un ruolo di mediazione per venire a capo del conflitto tra russi e ucraini. Un primo (fallimentare) colloquio si è svolto ad Antalya. Ancora sullo sfondo l’ipotesi, fortemente caldeggiata da Zelensky, di Gerusalemme. Turchia e Israele appaiono quindi in concorrenza da questo punto di vista. Intanto però, dopo oltre un decennio di ostilità, sono tornate a tendersi la mano.
“Il bagaglio del passato non scompare mai di sua spontanea volontà, ma noi, i nostri due popoli, i nostri due Paesi, stiamo scegliendo di intraprendere un viaggio di fiducia e rispetto” le parole del Presidente d’Israele Herzog da Ankara, dove ha incontrato Erdogan e provato a gettare le basi di un nuovo inizio. “Dobbiamo concordare in anticipo che non saremo d’accordo su tutto. Questa – ha poi aggiunto Herzog – è la natura di una relazione con un passato ricco come il nostro”.
“È evidente che se le relazioni tra Israele e Turchia miglioreranno, la cosa avrà un impatto positivo anche sulla vita ebraica nel Paese”, sottolinea rav Chitrik. Ma se non dovesse andare così, la sua opinione è che le conseguenze non sarebbero particolarmente significative. Afferma infatti: “Abbiamo le nostre sinagoghe, abbiamo i nostri luoghi di aggregazione, abbiamo i nostri servizi. Tutto questo non è mai mancato, anche nei momenti più difficili”.
Un ruolo nel preparare il terreno alla visita lo ha avuto proprio l’alleanza dei rabbini nei Paesi islamici, di cui fa parte anche il rabbino capo di Livorno Avraham Dayan in rappresentanza di Alessandria, riunitasi in dicembre ad Istanbul per concertare alcune strategie comuni. Inaspettata, nel corso dei lavori, è arrivata una telefonata. Era un funzionario di Erdogan, che proponeva un incontro ad Ankara da tenersi nelle ore successive. Col favore dei presenti quel colloquio col discusso leader turco si è poi svolto e, dice rav Chitrik, “so che ha avuto un suo peso non irrilevante in tutto quel che è seguito”. Due mesi e mezzo dopo, ad Ankara ecco apparire Herzog.
“Ma non voglio immischiarmi in considerazioni politiche, non è il mio lavoro. Compito di un rabbino è quello di guidare comunità, di trasmettere valori, di avvicinare e unire le persone” prosegue rav Chitrik, che è nato e cresciuto a Safed, in Israele, e opera in Turchia dal 2003. Farlo anche laddove tutto si presenta, almeno in apparenza, più difficile. “C’è vita ebraica nei Paesi islamici”, insiste. “E non è una presenza di facciata, ma qualcosa che possiamo toccare con mano. Certo la situazione si presenta differente di Paese in Paese, certo restano ostacoli e sfide anche importanti da affrontare. Ma questa convivenza, la convivenza tra ebrei e musulmani, non solo è possibile ma anche necessaria”. Una relazione viva e che, la sua opinione, “può anche lanciare un messaggio positivo al mondo intero, specie in una contingenza storica del genere”.
L’evoluzione del conflitto russo-ucraino tocca da vicino anche la comunità ebraica ashkenazita di Istanbul, un migliaio circa di persone, le cui radici sono appunto nell’Europa orientale. “Un piccolo ma vivace mondo, all’interno di una comunità che è perlopiù di tradizione sefardita. Ma gli ashkenaziti, pur minoranza, erano già qui da generazioni quando i primi sefarditi arrivarono ad Istanbul in seguito ai decreti di espulsione di Quattro e Cinquecento dall’Europa cristiana”, fa notare rav Chitrik. Si parla, anche nella Turchia ebraica, di solidarietà e corridoi umanitari. Un tema di cui il rav si intende in quanto artefice di una delle operazioni di cui più si è parlato lo scorso anno: il salvataggio di Zebulon Simantov, l’ultimo ebreo d’Afghanistan, la cui incolumità fisica sotto i talebani sarebbe stato in enorme pericolo. Un’operazione non semplice perché l’uomo, almeno in un primo momento, non voleva lasciare Kabul. È stato proprio il rav a convincerlo e ad attivarsi con le autorità turche per fargli avere un lasciapassare. “All’epoca – ricorda – le relazioni tra Turchia e Israele erano ancora piuttosto brutte. Però, davanti alla prospettiva di salvare una vita, tutto questo non ha significato niente. Una collaborazione nel segno della buona volontà, il patrimonio più prezioso su cui dobbiamo investire”.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
(14 marzo 2022)