La forza della ragione
(e il suo contrario)

Anni or sono Vladimir Putin scrisse una tesi (si discute se fosse di dottorato oppure di un grado minore, come il B.A.) redatta con una certa disinvoltura, la quale tesi rileva per la parte attinente alle idee soggiacenti (cfr.The Mystery of Vladimir Putin’s Dissertation, Igor Danchenko and Clifford Gaddy, The Brookings Institution). Tali idee riconoscono un nocciolo duro, concernente la sfiducia, vissuta e sperimentata nell’amministrazione di San Pietroburgo, nella partnership fra pubblico e privato, in quanto quest’ultimo tendeva a frodare il primo. Poiché Putin è laureato in legge, possiamo ipotizzare un suo scarso affidamento nell’idoneità dell’ordinamento domestico.
Ciò riporta alla tesi dei legal origins (la quale è opera di un gruppo noto con l’acronimo LLSV o LLs, formato da Rafael La Porta, Florencio Lopez de Silanes, Andrei Shleifer & Robert W. Vishny) secondo la quale le origini anglosassoni avrebbero un impatto positivo, in quanto il common law sarebbe superiore al civil law per quanto riguarda la crescita economica.
L’addotta superiorità del common law sarebbe basata su: a) la maggiore indipendenza dei giudici, a fronte della quale i governi potrebbero incidere di meno sui mercati, e b) sul fatto che la case law si adatterebbe meglio al mutare degli eventi. Tuttavia, a noi questo sembra in parte un wishful thinking: un poco come considerare che il successo del Giappone e poi della Cina sia dovuto all’uso degli ideogrammi. In realtà il common law è un sistema tavolta macchinoso e scomodo, sempre più sostituito dallo statute law. Sarebbe forse più proficuo cercare altrove le ragioni del maggior o minor paternalismo normati?
Vi sono state delle critiche. Si è asserito che le relazioni Doing Business della Banca Mondiale hanno attribuito alla tesi dei legal origins un foro di elevata visibilità, aprendo all’accesso a fondi per le costose ricerche assieme alla sponsorizzazione della stessa Banca Mondiale. Le relazioni in parola, come detto, sono state criticate, e le critiche hanno investito anche la marcata preferenza per la deregulation rispetto ad altri valori come solidarietà, giustizia e cultura. Si è pure asserito che determinati Paesi sembrerebbero essere stati in qualche modo incoraggiati a non aderire alle convenzioni dell’ILO (International Labour Organization). La Francia, ad esempio, contestò duramente la teoria dei legal origins, ponendo in essere uno scontro culturale di stampo nazionalistico, da cui la tesi e le conclusioni putiniane di taglio pubblicistico prendono le mosse
Alla luce del famoso articolo di Henry Kissinger sul Washington Post del 5 marzo 2014 (Henry Kissinger: To settle the Ukraine crisis, start at the end) rievocato di recente da Sabino Cassese sul Corriere della Sera, nel quale l’ex Segretario di Stato si limita a auspicare la “riconciliazione” come se fosse non un politologo ma un predicatore, possiamo evincere come tale approccio diffidente di Putin sul piano interno, si sposti anche su quello esterno, laddove privilegia la forza sulla trattativa. Anziché procedere alla sola analisi psicologica (alquanto inutile, nella II Guerra Mondiale) sarebbe bastata la constatazione del conflitto fra la formazione giuridica del Presidente russo e la formazione professionale nei servizi, che deve per forza prescindere dai limiti. ordinamentali.
Quanto al profilo personalistico, Vladimir Putin non ha niente in comune con i suoi colleghi, se non la dimostrazione della globalizzazione della crisi delle leadership. Quando si giunge allo scontro, è perché la leadership viene meno, soprattutto sotto il profilo della qualità, e ciò non soltanto in politica. Sul piano del diritto, al posto della “riconciliazione” postulata da Kissinger, il quale è un caso di scuola di fallito di successo o, se si vuole, di successo fallimentare, andrebbero ripensate le forme giuridiche, come furono pensate ad esempio dal suo e nostro correligionario Hans Kelsen (ebreo con giravolte, beninteso). È tardi? La risposta dipenderà dalla qualità della leadership che contrasterà l’invasione dell’Ucraina, le cui scelte dovranno essere speculari a quelle dell’avversario.
Un paradigma di leadership da riesaminare è quello della recente vicenda del Consiglio d’Europa, del quale la Federazione russa è membro dal 1996. Si apprende che “Conformemente allo Statuto del Consiglio d’Europa, il Comitato dei Ministri ha deciso oggi di sospendere, con effetto immediato, la Federazione russa dai suoi diritti di rappresentanza nel Comitato dei Ministri e nell’Assemblea Parlamentare a seguito dell’attacco armato sferrato contro l’Ucraina. La decisione di oggi significa che la Russia rimane membro del Consiglio d’Europa e parte delle sue convenzioni, compresa la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Anche il giudice eletto alla Corte europea dei diritti dell’uomo a titolo della Federazione russa resta un membro della Corte, la quale continuerà a esaminare e a pronunciarsi sui ricorsi presentati contro la Federazione russa. La sospensione non è una misura definitiva ma temporanea, lasciando aperti i canali di comunicazione. La decisione è stata presa dopo uno scambio di opinioni con l’Assemblea parlamentare in seno al Comitato misto”.
Sennonché, l’articolo 8 dello Statuto COE dispone che un membro “possa” essere sospeso e non che “debba” essere sospeso. Lo rimarchiamo perché la Russia ha colto l’occasione per rinunciare/dismettere la sua partecipazione al Consiglio d’Europa. Era opportuno farlo? Eppure già nel 2021, Leonid Slutsky, Presidente del Comitato internazionale della Duma aveva consigliato di rimanere nel Consiglio d’Europa. Questa non è solo una guerra fisica, ma è anche una guerra filosofica, fra opposte percezioni. Sancirne (e cagionarne) il distacco mi lascia perplesso; rimanere in contatto non sarebbe stato un errore. Qualche altro Stato, che non brilla per il suo (diciamo) amore per i diritti universali, ne fa ancora parte, ed è un bene. Anche il litigio è una forma di rapporto.

Emanuele Calò, giurista

(15 marzo 2022)