Allegra Guetta, una vita di testimonianza
“L’archetipo dell’ebrea libica”

Allegra Guetta Naim, 94 anni appena compiuti, è una delle ultime superstiti del campo di concentramento libico di Giado ancora in vita. Un trauma che le si è incollato alla pelle e all’anima, anche se non le ha tolto quella gioia di esistere che trapela anche da un sorriso radioso. Tanti amici si sono dati appuntamento da tutto il mondo per festeggiarla – chi in presenza, in Israele dove vive – e chi a distanza attraverso Zoom. I presenti hanno potuto godere non solo della sua simpatia, ma anche di alcune pietanze della tradizione libica preparate dalle sue stesse mani. Talmente appetitoso il risultato finale che qualcuno, quelle mani, non ha esitato a definirle “sante”.
Al culmine dei festeggiamenti Astrel, l’Associazione Salvaguardia Trasmissione Retaggio Ebrei di Libia, le ha consegnato una targa. Un modo per ringraziarla e per ribadire quanto il suo carisma abbia rappresentato un faro e un punto di riferimento attraverso le generazioni. Una figura, è stato detto di lei, “che simboleggia la sofferenza che la nostra gente ha patito a Giado, ma anche la capacità di risollevarsi e ricominciare a vivere, ripartendo dalla tragedia e raggiungendo risultati incredibili”. 
L’adolescenza di Allegra è stata ferita da esperienze indicibili: “Cadaveri trasportati dalle carriole, cadaveri accumulati a destra e sinistra in ospedale”. Macerie dell’anima cui ha saputo reagire senza mai smarrire una rotta. Testimoniando, malgrado tutto, “che la vita continua” e che se si lotta per un obiettivo può trasformarsi “in una vita piena di amore”. Oggi, a 94 anni, è per Astrel “l’archetipo della mamma libica: ebrea piena di fede, amore, giustizia, verità e gratitudine”. Allegra, ancora, “che benedice, che ama la verità e che insegue la giustizia”.
Merito anche della sua perseveranza e del suo coraggio se oggi di Giado si è iniziato a parlare. E se sta cadendo il velo su quello che è stato a tutti gli effetti, come raccontava su queste pagine David Meghnagi, il più spaventoso dei campi di detenzione e per i lavori forzati concepito dai fascisti. Drammatico il bilancio in termini di vite spezzate (e non solo): “Sei mesi dopo la deportazione a Giado, 560 ebrei erano morti per tifo, fame e stenti. All’arrivo delle forze britanniche, dopo la sconfitta delle potenze dell’Asse a El Alamein, 480 internati erano gravemente malati. Gli altri temettero sino all’ultimo di essere fucilati in massa”.
Riflettere su Giado e su altre realtà della sopraffazione fascista in quelle terre. Farlo senza sconti né indulgenze, e soprattutto portare questa vicenda all’attenzione di tutta la società. È la richiesta di Dario Calimani, che in un recente intervento su Pagine Ebraiche si è rammaricato “di non averne mai saputo nulla” fino a poco tempo fa. Forse, la sua valutazione, “anche questo è uno di quei buchi neri della memoria che nessuno si preoccupa di riempire, a parte il dolore incancellabile dei diretti interessati”. A parte i dati specifici dell’evento tragico, Calimani si è posto alcune domande, chiedendosi ad esempio “che sentimenti siano rimasti nei tripolini italiani a quel riguardo, se siano ritenuti genericamente colpevoli i nazisti, o se si riconoscano a chiare lettere le responsabilità dei fascisti, o magari anche di parte del popolo libico, nel caso si sappia di collaborazionismo locale”. Insomma, concludeva, forse esiste una narrazione acquisita. E allora “rendiamola ben nota”.

(Nelle immagini: il campo di Giado; i festeggiamenti per i 94 anni di Allegra Guetta)

(Dossier “Libia” – Pagine Ebraiche marzo 2022)