Meticciato

Abbiamo commentato, nelle scorse puntate, la scelta, da parte dei redattori de La difesa della razza, di apporre come epigrafe, sul primo numero del quindicinale, i due versi del Paradiso di Dante (XVI 67-68) “sempre la confusion delle persone/ principio fu del mal della cittade”. E abbiamo osservato, al proposito, come questa decisione abbia rappresentato una cinica distorsione del pensiero del poeta, che – al di là della distanza temporale – era lontano anni luce dai contorti meccanismi logici di questi pseudo-giornalisti. I lettori, in questo modo, venivano chiaramente ingannati (anche se con loro probabile compiacenza, è da dire).
Ma il discorso non finisce qui. Gli scopi del giornalaccio, infatti, furono essenzialmente due.
Il primo, più importante, era quello di preparare l’opinione pubblica alla promulgazione dei Regi Decreti in materia di razza, che erano certamente già stati pianificati da tempo. Era evidente che una prosecuzione dell’alleanza con la Germania nazista sarebbe stata difficile – soprattutto nella guerra, che tutti sapevano che sarebbe scoppiata di lì a breve – se il servo italiano non si fosse adeguato alla linea del padrone tedesco. L’antisemitismo, infatti, non era certo un particolare secondario della politica hitleriana, era il suo principio basilare, il suo DNA, la sua “Grundnorm”. Certo, Mussolini non poteva aspettarsi grandi resistenze su questo punto dal popolo dei suoi adulatori, ma ritenne comunque opportuno fare un sondaggio, soprattutto per vedere le reazioni della Chiesa, che, nonostante tutto, contava ancora qualcosa. Anche se, infatti, gli italiani non parevano amare gli ebrei, non sembrava neanche che li odiassero. E, soprattutto, di una presunta “questione ebraica” non si parlava, bisognava cominciare a fare capire il problema. Perciò fece sottoscrivere il Manifesto della razza, e fece poi pubblicare il giornale.
Reazioni negative, com’è noto, nell’uno e nell’altro caso, zero. Si era dunque acceso il semaforo verde.
Ma c’era anche un’altra ragione. Il quindicinale, infatti, volle rendere manifesto un netto mutamento della politica del regime in tema di quello che veniva chiamato “meticciato”, ossia di unioni, nelle colonie, tra uomini italiani e donne indigene. La grande maggioranza dei giovani mandati in Libia e in Etiopia, a costruire la grandezza dell’impero (prima con le armi e poi con gli strumenti di lavoro), infatti, andava in quelle terre lontane per restarci anche lunghi anni, e non avrebbero potuto avere, per tutto quel periodo, rapporti con le loro fidanzate e mogli, e neanche con meretrici ‘ariane’. Ovvio e inevitabile, perciò, che ci fossero rapporti con la popolazione femminile locale, ovviamente visti in un’ottica di preda e conquista, che diede corpo a una ricca produzione di vignette umoristiche, volta a esaltare le virtù amatorie del fiero maschio latino. Erano davvero fortunate, quelle “faccette nere”, a poter godere di un così alto privilegio. E non mancarono neanche delle unioni stabili e durature, delle vere e proprie famiglie. Il fenomeno è raccontato, con grande fedeltà storica, e anche con delicatezza, nei romanzi di Luigi Preti (1914-2009, più volte ministro socialdemocratico, ma anche raffinato scrittore), quali Giovinezza giovinezza, del 1969, e Un ebreo nel fascismo, del 1974.
Vennero al mondo, così, diversi, molti bambini. Come dovevano essere considerati? Africani o italiani? Una via di mezzo? La questione, a un certo punto, fu avvertita come imbarazzante, finché il regime non decise di fare capire che quelle nascite non erano gradite, in quanto, per usare proprio la parola di Dante, portavano, appunto, “confusione”. Quel fenomeno – che, ovviamente, era stato generato proprio dal colonialismo razzista italiano (iniziato, com’è noto, già nel 1911, quindi prima del fascismo) – andava arginato.
Certo, l’Italia non fu certo l’unica potenza coloniale, e Mussolini ebbe buon gioco a denunciare l’ipocrisia di quelle potenze, come il regno Unito, che condann+avano il nostro Paese per qualcosa che loro facevano da secoli, e molto più in grande. Ma la cosa importante è un’altra: con la proclamazione dell’impero, nel 1936, il dichiarato modello di riferimento del regime fu la grande Roma imperiale, civilizzatrice del mondo. Roma fu quello che fu, e certamente non conquistò il suo immenso spazio regalando scatole di cioccolatini.
È certo difficile sintetizzare in poche parole cosa fu l’impero romano, ma è invece facilissimo dire cosa esso “non fu”. In tutte le località dello spazio politico di Roma, a partire dal secondo secolo prima dell’era volgare, dopo la contemporanea conquista di Cartagine e Corinto, fu una cosa normalissima vedere uomini dalla pelle bianca lavorare, come schiavi, al servizio di padroni dalla pelle scura. Nessuno avrebbe mai avuto niente da ridire. E perché mai?
Roma fu sempre, per eccellenza, il mondo della “confusione”. “L’antirazza”.
Ma, due anni dopo il ‘36, la situazione si capovolse, perché Mussolini cambiò modello, passando da Augusto a Hitler. L’apparizione, in edicola, de La difesa della razza è il chiaro segnale di questo giro di boa. La farsa era finita, cominciava l’orrore puro.

Francesco Lucrezi

(16 marzo 2022)