Il ruolo di Zelensky
Non ricordo dove ho letto che se a un abitante della Zona di residenza avessero raccontato che un giorno il presidente dell’Ucraina sarebbe stato un ebreo questi avrebbe riso sonoramente prendendo l’altro per pazzo. Probabilmente neppure Vladimir Putin aveva compreso sino in fondo le capacità e la prodezza di Volodymyr Zelensky. Che ci fosse in mezzo o no un sentimento antisemita, senza dubbio Putin pensava che Zelensky avrebbe tradito il proprio paese o contemporaneamente che l’esercito e i propri concittadini non l’avrebbero sostenuto sino in fondo.
Tra coloro che definiscono Zelensky un “nazionalista bellicoso” o al contrario un “paladino della pace e della libertà” per cautela sarebbe forse preferibile ibernare per adesso questo tipo di giudizi sino al termine (speriamo a breve) del conflitto. Le valutazioni sulle figure storiche acquistano concretezza solo a posteriori, una volta che la storia ha proseguito il suo corso.
Zelensky è prima di tutto – e ciò è fuor di dubbio – il presidente di uno stato e di un popolo che è stato ingiustamente aggredito da un tiranno sanguinario. Egli in questi giorni ha mostrato oltre al coraggio, un’umanità e persino una sorta di umorismo di fronte alla tragedia così distante dalla freddezza e dal cinismo di Vladimir Putin, eppure però quando invoca la No-Fly Zone – e quindi un coinvolgimento diretto della Nato – o l’obbligo a combattere e a non lasciare il paese a tutti gli uomini dai 18 ai 60 anni non è sinceramente granché condivisibile e in parte spaventa. Per quanto sia sì comprensibile l’atteggiamento disperato di un premier a capo di un paese a rischio scomparsa, da settimane sotto bombardamenti e con milioni di profughi in fuga.
Sulla nota rivista The Atlantic un articolo di Gal Beckerman dal titolo “How Zelensky Gave the World a Jewish Hero” sosteneva giorni fa come Zelensky abbia in qualche modo capovolto la storia facendo sì che come esito del conflitto “gli ebrei percepiti nella storia est-europea come eterni outsiders ad un tratto possano sentirsi un tutt’uno con una terra che ha perennemente cercato di cacciarli fuori”. Beckerman conclude che “il fatto che un ebreo sia arrivato a rappresentare lo spirito combattivo dell’Ucraina fornisce la speranza di un’inclusione e di un’accettazione in un luogo in cui una volta sembrava impossibile.”
Come abbiamo letto anche su queste pagine la popolazione ebraica dell’Ucraina e della Federazione Russa è difficilmente quantificabile, con certezza sappiamo che l’ebraismo ucraino a causa dell’ateismo di stato e della repressione sovietica è un ebraismo in gran parte assimilato, secolare, intermittente e dove l’usuale metro matrilineare per definire “chi è ebreo” non è del tutto applicabile. Quale sarà il destino dell’ebraismo in Ucraina – la cui popolazione vive prevalentemente nella parte orientale del paese a cavallo del Dnepr – è purtroppo per adesso una tra le tante incognite di questo conflitto, ciò che però non è scontato è che gli ebrei ucraini seguano un destino diverso dagli altri concittadini non ebrei, i quali anche se in fuga anelano a un ritorno nel paese al termine della guerra. A differenza della maggioranza degli altri esodi ebraici, se un esodo di questo tipo avverrà questo non sarà a causa dell’antisemitismo ma a seguito di un’aggressione che ha subito l’intera popolazione, il paese guidato proprio da Zelensky. Oltre le illusioni, gli esodi e l’assimilazione del Novecento, Zelensky ha dimostrato nuovamente che da ebrei è possibile avere un ruolo fondamentale in ogni luogo del mondo anche solo a protezione del luogo in cui si è nati.
Francesco Moises Bassano
(18 marzo 2022)