Il pensiero risonante

C’è l’intelletto che, secondo un’antica tradizione di pensiero (per l’appunto, si parla di idea che sa pensare a se stessa, poiché la stessa parola si riferisce al formulare i temi della vita con spirito critico, oltreché con agire cognitivo, così come alla socializzazione del sapere) esprime una forma di concezione del mondo diversa, e più nobile, in quanto maggiormente elaborata rispetto alla sensibilità emotiva come tale e all’esperienza grezza. Si tratta quindi della sapienza, intesa come forma attiva della comprensione, destinata a concorrere alla costruzione della società. E poi ci sono gli intellettuali, una categoria difficilmente riconducibile ad una figura unitaria, in quanto destinati a mutare, nei loro confini categoriali, con il trasformarsi delle società in cui si trovano ad operare. Sussiste un difetto dell’età presente ed è questo: posto che al netto del diffusissimo anti-intellettualismo populista (di ogni colore politico), l’intellettuale abbia tradizionalmente risposto con un esercizio sia riflessivo (comprendere l’indirizzo del tempo corrente) che autoriflessivo (ragionare su come egli stesso produce pensiero, ed in quali condizioni materiali), oggi il secondo elemento è invece completamente ridimensionato. Si dichiara di pensare ma non ci si esercita mai su come tale competenza sia svolta. Tuttavia non si è pensatori della propria epoca se, al medesimo modo, non si riflette su come su si stia esercitando la facoltà dell’esercizio critico, ovvero entro quali schemi mentali e vincoli materiali. Una volta c’era l’«intellettuale organico», per come fu definito colui che nell’«età delle masse» (dall’Ottocento in poi), era parte del processo di produzione di egemonia culturale, ossia di un comune sentire che si traduceva in legittimazione dei poteri (come anche dei contropoteri organizzati in potenti fazioni e temibili falangi). Quello, per inciso, che con compiaciuto schematismo viene oggi molto spesso bollato come «pensiero unico». Così come c’erano gli intellettuali che si esercitavano nel «pensiero critico», quell’esercizio di analisi che avrebbe invece dovuto dischiudere alle collettività l’orizzonte di possibili alternative allo stato di cose vigenti.
Oggi, l’intellettuale non aderisce ad una figura critica; quanto meno non sempre. Certo, le generalizzazioni sono ingrate e anche ingiuste, ma un filo logico pur sussiste. Tralasciando i cortigiani che spacciano il loro sgradevole susseguo con un’inesistente funzione analitica, tutto il pensiero risonante, quello cioè che trova un qualche spazio e una certa considerazione tra l’opinione pubblica, è spesso il prodotto della comunicazione mediatizzata. Laddove, le forme, i modi e i linguaggi dei media contribuiscono di molto a dare spessore a ciò che si vuole dire. Non di meno, sono i volani della socializzazione di parole e persone che entrano letteralmente nelle nostre case, ogni giorno. Senza i mezzi di comunicazione, infatti, quelle medesime parole e, soprattutto, le persone che le esprimono, raccoglierebbero un’eco di molto minore. Ci si può compiacere dell’essere parte di ristretti cenacoli, dove ciascuno «se la suona e se la canta», soprattutto se il tutto si consuma tra vecchi e immarcescibili sodali, che esercitano la facoltà aristocratica di tradurre la loro sostanziale emarginazione in una fantasia d’indipendenza. Ma non è non meno vero che il pensiero, se non vuol essere solo un esercizio solipsistico, necessiti di una piattaforma di manifestazione. A svolgere un tale ruolo, un tempo, erano i corpi intermedi delle società industriali, a partire dai sindacati, dai partiti, dallo stesso associazionismo civile per poi proseguire con la carta stampata ed altro ancora. Oggi, questa forma di mediazione e rappresentanza – per quanto fosse spesso molto discutibile quando era in essere – è venuta meno quasi del tutto. Semmai si parla di gruppi editoriali come aggregazioni di interessi. Torna invece in auge una figura ottocentesca, che tuttavia bene si accomoda sugli scranni della scena mediatica contemporanea, quella dell’«esperto» polemista. Ovvero, di colui che della polemica a ciclo continuo fa ragione d’essere, recitandola, in forma di giaculatoria implacabile, come una sorta di preghiera laica da formulare in pubblico. Viene interpellato quasi sempre per smentire con veemenza l’altrui discorso. Gli si chiede tale prestazione, alla quale in genere si presta con agio, in quanto sarebbe il titolare di una coscienza alternativa. Si tratta, per una società della comunicazione permanente come la nostra, di un esercizio di spettacolo che solletica le corte dell’audience e scalda i motori della pubblicità. Lo spettacolo, per l’appunto, del reagire polemico, che si manifesta come una prevedibilissima (e come tale tanto attesa) forma di opinionismo reattivo, indignato non meno che intrinsecamente intollerante, dinanzi a ciò che viene invece presentato come pensiero condizionato poiché espressione del «mainstream». Siamo in presenza di un controsenso logico poiché quegli stessi che evocano, a piè sospinto, l’occlusione, la preclusione, la presunta privazione degli spazi pubblici di (auto)manifestazione, nel nome di una qualche «dittatura del pensiero unico», hanno poi spesso accesso alla sfera e ai luoghi della libera manifestazione di sé e dei propri convincimenti. Qualcosa non torna, quindi. Varrebbe la pena, invece, il riflettere su come la seduzione della mediatizzazione sia oggi presente tra non pochi produttori di pensiero. Remunera tanto lo spirito (l’ego, che si riflette e rifrange negli specchi della comunicazione pubblica) come, assai spesso, il corpo (i ritorni di immagine, quand’anche negativi, muovono i mulini del pensiero come «merce», facendo aumentare le vendite del propri prodotti, dai libri a quant’altro: nulla di scandaloso in ciò, posto che in una società capitalistica quel che circola ha, oltre ad una valore d’uso, anche un valore di scambio, quindi una immediata ricaduta mercantile). E se in un social network i like fanno non solo numero ma anche tendenza («influenza»), chi si muove negli spazi televisivi fa numeri da spettacolo, mettendo in scena se stesso come rappresentazione di una verità che sarebbe tanto più scomoda quanto fino a quel momento non pronunciata. Chi contesta quello strano e spesso indefinibile groviglio relazione che conosciamo «potere», spesso cerca potere. Il più delle volte per se stesso, magari ammantandolo e rivestendolo sotto le vesti della contro-narrazione. Lo può fare con piena consapevolezza (ad esempio nel caso delle corporazioni editoriali che occupano stabilmente le arene di “approfondimento”) così come con disarmante ma anche irritante personalismo. Abbiamo assistito alle stravaganze irritanti di alcuni esponenti dell’intelligenza italica ai tempi della pandemia. Sapremo resistere ai talk show dei momenti bellici, sopravvivendo a certa egolatria. Ce ne faremo una ragione, per così dire, cercando da (e in) noi stessi le nostre stesse ragioni. In fondo, al pensiero risonante che si basa sulla ridondanza di certe raffigurazioni stereotipate, possiamo sempre contrapporre la «complessità» che ci accompagna. Qualora la parola abbia ancora un senso reale e non sia solo una mera etichetta per coprire un qualche vuoto.

Claudio Vercelli