Periscopio – Dante noachide

Ritengo che ci sia ancora qualcosa da dire riguardo all’uso distorsivo – di cui abbiamo parlato nelle scorse puntate -, da parte dei redattori de La difesa della razza, dei due versi del Paradiso (XVI 67-68: “sempre la confusion delle persone/ principio fu del mal della cittade”) apposti in epigrafe sulla copertina del primo numero del quindicinale.
Il periodico, com’è noto, fu voluto per educare i lettori – e, sperabilmente, l’intero popolo italiano – a una piena coscienza razzista, che, fino a quel momento, era rimasta un fenomeno latente, sottotraccia, confinato per lo più nelle conversazioni private, soprattutto quelle più volgari e triviali. Certo, per i nostri colonizzatori che andavano e venivano dalla Tripolitania, dalla Cirenaica, dall’Eritrea e dall’Etiopia era ovvio che, in quei luoghi, abitassero delle popolazioni inferiori, alle quali andavano riservati atteggiamenti diversi (benevolo paternalismo, scherno, disprezzo, indifferenza…), ma, certamente, sempre sulla base di un chiaro rapporto gerarchico e discriminatorio: noi comandiamo, voi ubbidite. Ma, ciò nonostante, fino al ’38, di razzismo non si parlava, era un argomento che gli italiani non avrebbero capito. Soprattutto, lo avrebbero capito poco nei confronti degli ebrei italiani, che gli italiani ‘ariani’ vedevano ogni giorno, nelle scuole, negli uffici, nelle strade, nei mezzi di trasporto: persone che parlavano la loro identica lingua, dalla pelle bianca come la loro, vestiti esattamente come loro. Delle terribili persecuzioni antiebraiche che avvenivano in Germania si sapeva poco, e non mancarono neanche un paio di timide e occasionali prese di distanza.
Nell’estate del ’38 il dado fu tratto, e ci fu la svolta. L’Italia doveva diventare un Paese razzista, il razzismo doveva uscire dal perimetro angusto delle grasse battute delle taverne e dei postriboli, per emergere, con energica irruenza, e con la più alta legittimazione, alla luce del sole. Quale sponsorizzazione migliore di quella di Dante, il padre della lingua italiana, l’immenso genio invidiatoci da tutto il mondo? Riguardo a questa indebita appropriazione, ci sono da fare due considerazioni.
La prima è la seguente. Ai giornalisti de La difesa della razza, evidentemente, non piaceva “la confusione delle persone”, nel senso che non gli pareva bello che i maschi italiani si accoppiassero con donne africane (discendenti dall’empio figlio di Noè Cam, e da suo figlio Cana’an), e che da queste unioni nascessero degli ibridi bambini “mezzosangue”. E non piaceva neanche che i bambini italiani ‘ariani’ (nelle cui vene scorreva il sangue purissimo della progenie di Iafet) avessero come compagni di banco dei discendenti di Sem. Tutti gli altri ‘semiti’ (Assiri, Babilonesi, Fenici…) erano scomparsi, quelli stavano ancora là. Come mai? Si doveva creare una società limpida, pura, ordinata, perfetta. Un solo sangue, un solo Dio, un solo credo, un solo Duce. Dante la pensava come loro? Per rispondere, basterebbe andare a rileggere il quarto Canto dell’Inferno, laddove il poeta descrive il giardino degli “Spiriti Magni”, ove sono collocate le anime dei grandi uomini alla base della civiltà umana, esclusi dalla beatitudine del Paradiso, in quanto privati del battesimo, ma in grado, ciò nonostante, di irradiare, nel tempo e nello spazio, la luce della loro grandezza. Un’immagine sublime, al cui ricordo il poeta dichiara di ‘esaltarsi’ (“che del vedere in me stesso m’essalto”: 120). Ettore, Enea, Platone, Cesare, Saladino, Eraclito, Tolomeo, Galeno, Avicenna, Averroè… L’ammirazione che emana dai versi è tale che c’è davvero da chiedersi se non fosse quello, di tutto il mondo ultraterreno, il posto più eccelso e splendente, pur essendo nell’Inferno. Eppure, questi signori parlavano greco, latino, arabo, avevano la pelle di vari colori, adoravano Zeus, Dioniso, Marte, Nettuno, Osiride, Iside, Allah… Non era disturbato, Dante, da tanta ‘confusione’? La seconda considerazione è questa. Poco prima della pubblicazione del foglio spazzatura, uno dei più grandi italiani del XIX secolo, il rabbino di Livorno Elia Benamozegh, avrebbe scritto delle pagine mirabili, dedicate al cd. ‘noachismo’, che avrebbero inciso fortemente sulla crescita della spiritualità ebraica, per poi avere, a partire dal secondo dopoguerra, una circolazione sempre più vasta e penetrante in molteplici ambienti ideologici e culturali, contribuendo ad abbattere muri secolari, e ad aprire delle pagine del tutto nuove non solo sul terreno delle scienze religiose, ma anche su quello del dialogo interreligioso.
Il noachismo, com’è noto, non è una nuova religione, ma la “piattaforma base” che permette a tutti gli uomini, di qualsiasi credo, e anche non credenti, di accedere alla salvezza, attraverso la semplice osservanza di quei sette (solo sette) precetti fondamentali obbligatori per ogni essere umano, detti noachidi in quanto dati da Dio prima ad Adamo e poi a Noè (Noach), e destinati non solo al popolo ebraico, ma all’intera umanità. In quanto tale, il noachismo, al di là degli specifici contenuti dei sette precetti, è soprattutto la sintesi dei due principi cardine della dignità dell’uomo: l’idea della responsabilità individuale di ogni singolo essere umano, giudicabile esclusivamente in ragione delle sue personali azioni; e l’idea dell’unità del genere umano, che non ammette mai divisioni e gerarchie. Dante, anche se non conobbe il noachismo, fu, indubbiamente, un noachide. Agli antipodi, in quanto tale, dai suoi spregevoli e ignoranti manipolatori.

Francesco Lucrezi