Sondare il terreno
Come abbiamo ricordato nelle scorse puntate, il primo numero de La difesa della razza, apparso in edicola il 5 agosto 1938, recava in epigrafe sul frontespizio i due versi del Paradiso (XVI 67-68) “sempre la confusion delle persone/ principio fu del mal della cittade”, mentre su tutti gli altri, fino alla fine delle pubblicazioni (l’ultimo numero è del 20 giugno 1943) apparvero invece i due versi “Uomini siate e non pecore matte,/ sì che il Giudeo di voi tra voi non rida!” (Par. V 80-81). Ho scritto al riguardo che evidentemente, tra la pubblicazione del primo e del secondo numero, dovette succedere qualcosa, atta a giustificare il cambiamento.
È da escludere che i redattori avessero intenzione di cambiare i versi per ogni nuovo numero. Il pur ricchissimo serbatoio della Commedia non offre certo tanti spunti utili a essere utilizzati, sia pure in modo distorsivo, in chiave razzista e antisemita. E la Direzione del quindicinale – come accade, d’altronde, per qualsiasi testata – certamente pensava che le pubblicazioni sarebbero continuate a tempo indeterminato. L’idea, quindi, doveva essere quella di usare sempre la medesima coppia di versi, usando Dante come autorevole ‘sponsor’ del foglio-spazzatura. Se è così, si può quindi immaginare che i giornalisti razzisti avessero inizialmente pensato ai versi sulla “confusione” come epigrafe per tutti i numeri, e che poi qualcuno sia venuto in redazione, dicendo qualcosa come: “Ehi, ragazzi, guardate cosa ho trovato! Questi due altri versi mi sembrano migliori”. Il suggerimento sarebbe stato accolto, e così le “pecore matte” sarebbero rimaste fino alla fine.
Può darsi che sia andata così, anche se non lo sapremo mai.
Ma si può fare anche un’altra ipotesi. I redattori, probabilmente, fin dal primo momento avevano in mente di utilizzare i versi sulle “pecore matte”, ma avrebbero preferito, per motivi precauzionali, sondare il terreno, per vedere le reazioni.
È evidente, infatti, che il senso che si voleva dare alle due coppie di versi (a prescindere dalle intenzioni di Dante) era molto diverso. La prima, sulla “confusione delle persone” come valore negativo, voleva avere un generico significato contro la promiscuità, l’incrocio delle razze, quello che veniva chiamato “meticciato”. Su questo punto, non ci si poteva aspettare alcuna reazione negativa. Ventisette anni di politica coloniale avevano ampiamente diffuso nell’opinione pubblica l’idea che gli africani fossero esseri inferiori (anche se di ‘razze’ non si parlava spesso). Gli italiani potevano avere rapporti sessuali con le donne indigene, ovviamente, ma tra questo e il farci figli c’era una bella differenza. Questo fatto doveva finire, e nessuno avrebbe potuto avere niente da eccepire al riguardo.
Ma il vero obiettivo, nel mirino dei redattori, non erano i libici e gli etiopi, che, per quanto disprezzati, non erano ritenuti dei mostri. Oltretutto, stavano a casa loro, lontano dalla purissima Italia. Erano gli ebrei. E qui la situazione si faceva più complicata, perché, come abbiamo detto, una diffusa coscienza antisemita, nel Paese, non c’era. L’Italia, su questo punto, appariva molto diversa dalla Germania (e anche da Paesi quali la Russia, la Polonia e altri).
Conveniva, senza nessun preavviso, apparire in edicola con un giornale dichiaratamente, esplicitamente antisemita? E se il papa avesse chiesto delucidazioni? Se qualche potente gerarca, amico di qualche ebreo influente (non ne mancavano, infatti, nell’imprenditoria, nelle Università, nell’Avvocatura…), raccolte le doglianze di questi, fosse andato a protestare con qualche pezzo grosso del regime, o col Duce in persona? Se Mussolini avesse avuto paura di perdere la facciata tranquillizzante e borghese del regime, e avesse rimproverato il Direttore, dicendogli che lui non voleva apparire suddito dei tedeschi, e che degli ebrei non gliene importava niente?
Col senso di poi, sappiamo bene che tutto ciò non sarebbe accaduto. Ma, prima dell’autunno ‘38, non si sapeva. Perciò, meglio non rischiare. Meglio uscire, col primo numero, con una generica citazione dantesca presentata come razzista, e poi, se tutto fosse andato bene, col numero successivo si sarebbe valicato il Rubicone.
Com’è noto, andò tutto benissimo. Il quindicinale non fu certo un exploit, ma non suscitò nessuna reazione negativa. Si poteva fare quindi tranquillamente – sempre saccheggiando il povero Dante – il piccolo passo che separa il razzismo dall’antisemitismo. Un passo piccolo, piccolissimo, impercettibile. Ma anche, per altri versi, come spiegherò nella prossima puntata, enorme.
Francesco Lucrezi
(30 marzo 2022)