Machshevet Israel
Profeti di sventura
Ragionando per generi letterari, non può non stupire nel canone della tradizione ebraica – non solo il Tanakh, ma anche i diversi corpora della Torà orale – la mancanza della tragedia (e, di converso, della commedia), generi diffusi e popolari nel mondo ellenistico. Troviamo narrazioni epico-militari, genealogie, lamenti funebri, poemi epitalamici, meditazioni semi-filosofiche, racconti cosmogonici (ovviamente non teogonie)… ma non abbiamo la tragedia. Non che mancassero temi e attori, non solo biblici. Nel campo delle belle lettere molti non ebrei hanno rimediato: dall’Atalia di Racine allo Shaul dell’Alfieri, come esempi. Vero, una certa storiografia ebraica, quella che Yosef Haim Yerushalmi definì ‘lagrimosa’, si avvicinava al genere tragico. Tuttavia il canone ne è privo. Tendo a pensare che esista un analogo letterario, condiviso a ben vedere da tutte le antiche società semitiche, ed è l’apocalittica. Che non diventa tragedia per il solo fatto che le vicende drammatiche di lacrime e sangue del popolo di Israele sono viste e narrate “dal punto di vista del divino”: descrivono sì cruenti conflitti di portata cosmica (oggi diremmo geo-politici) ma anche la loro risoluzione, in chiave di teodicea.
Su questo sfondo apocalittico si staglia un’altra figura tragica, presente nella storia biblica: il profeta di sventura, l’inviato divino che deve annunciare una catastrofe o un castigo divino (sempre collettiva, reminiscenza del diluvio universale) ossia un’apocalisse. Il termine apocàlypsis è greco e indica uno svelamento, una rivelazione di ciò che è nascosto. Come il nome del messia, inteso quale dux o re che restaura quel che è perduto e riscatta Israele dalla mano dei suoi oppressori. Gershom Scholem ha mostrato quanta parte abbia, nel pensiero mistico-rabbinico, siffatta visione catastrofista della storia, dalla quale emerge e nella quale si colloca il messianismo ebraico. In attesa dello svelamento o riscatto escatologico, la storia ebraica conosce in particolare la figura tragica dei profeti di sventura, il più grande dei quali resta il Yirmeyahu [Geremia] ben Chilqiyahu, “la Cassandra” del popolo ebraico. Il lato tragico del profeta di Anatot, come di Cassandra figlia del re troiano Priamo, non sta nel fatto che predìcano catastrofi, lacrime e sangue, ma nel fatto che non vengano creduti, sono anzi irrisi e perseguitati per queste loro (pre)visioni.
In questi nostri tempi catastrofici sul piano materiale e morale, invece di improvvisarci analisti mondiali potrebbe giovare immergerci nella lettura dei 52 capitoli del rotolo di Yirmeyahu, soprattutto usando una guida introspettiva come il pensatore alsaziano André Neher (il suo intenso libro, del 1960, si intitola semplicemente Geremia, edito da Giuntina nel 2005, tradotto e introdotto da Orietta Ombrosi). Neher si dedicò a lungo alle figure profetiche: pubblicò studi su Amos nel ‘50 e sull’essenza del profetismo nel ’55. Neher ci descrive questo vate di disgrazie come un uomo esistenzialmente braccato, coatto al contempo dal destino di Gerusalemme, ormai segnato, e dalla Parola divina, incarcerato e costretto all’esilio, perso nei vicoli ciechi dell’ora più buia, quella della distruzione del Tempio da parte dei babilonesi, che si vendicano contro il regno di Giuda per aver scelto di allearsi con l’Egitto (i ben noti dilemmi: da che parte stare, con chi allearsi, scegliere tra ragion di stato e valori etico-religiosi). Yirmeyahu è un tafano, che non lascia in pace nessuno: né il re, né i suoi colleghi sacerdoti, né il popolo minuto. Men che meno è in pace con se stesso. Vi sono altri profeti in Gerusalemme, professionisti della profezia, ma solo lui è ispirato e dice la verità, che non è affatto consolatoria: quale verità lo è? Quale catastrofista consola? Questo profeta non sembra accontentarsi di denunciare le ingiustizie sociali o le pratiche superstiziose del popolo. Il suo brutale realismo politico fa quasi il gioco del nemico e demoralizza le truppe, delegittima la resistenza… chas ve-chalila! Tutti gli ebrei della diaspora, ricorda Neher, hanno stampato nel cuore il paradossale imperativo di questo tafano divino, che li invita a “cercare la pace del paese che li ha sconfitti ed esiliati” (cfr. Ger 29,5-6). Se non fosse nel Tanakh, nessuno oserebbe immaginarlo! Definire poi Nabuccodonosor ‘servo del Signore’? Sembra una sfida all’amor di patria! Rotolo difficile, questo; non di meno è incastonato nel Tanakh come un memento a non seguire i facili entusiasmi e leggere le situazioni con un occhio al capovolgimento delle sorti, sempre possibile pur nel mezzo delle tre sventure gridate dal profeta: “fame, spada e peste”. A ritroso, dopo l’epidemia, la guerra; dopo la guerra, la fame ossia la crisi energetica, la penuria di grano, ecc.: siamo noi. Non per nulla a questo profeta la tradizione attribuisce anche Eichà, la meghillà delle lamentazioni. Vi sono momenti nella vita in cui la rivelazione non è nella sottile voce di silenzio esperita da Eliahu ma nella tempesta, nelle infinite sfumature dell’angoscia, nell’hester panim. C’è qualcosa del Rebbe di Kotzk in Yirmeyahu, il più antico dei “maestri del sospetto”. Ma proprio perché anche Nabuccodonosor è ‘nelle Sue mani’, la sventura non è l’ultima parola. “Sì, li farò tornare e mostrerò loro il mio amore materno” (Ger 33,26).
Massimo Giuliani, università di Trento
(31 marzo 2022)