Noam Shalit (1954-2022)

“Quando ne parliamo in casa, quando ne parliamo con lui, ci diciamo che il 18 ottobre è il suo secondo compleanno”.
Così Noam Shalit nel ricordare cosa ha significato, per lui e per la sua famiglia, quel 18 novembre del 2011 in cui suo figlio Gilad fu liberato dalle mani dei terroristi di Hamas dopo cinque anni e mezzo di prigionia a Gaza. Indimenticabile il suo impegno per la liberazione di Gilad, catturato da un commando il 25 giugno del 2006 e restituito alla libertà dopo uno scambio con 1027 detenuti palestinesi (molti dei quali affiliati a gruppi terroristici e responsabili di gravi crimini). “Abbiamo imparato ad apprezzare la sua determinazione, la sua dedizione, la sua fede incrollabile nel riuscire, alla fine, a convincere chi di dovere a riportare a casa Gilad. La battaglia che ha condotto era al di là della lotta di un padre per il figlio. Era una battaglia per i valori della società israeliana” ha dichiarato Shimshon Liebman, amico di famiglia e al fianco di Noam e della moglie Aviva nei cinque anni e mezzo senza Gilad. Un ricordo, quello di Liebman, in un momento di dolore. Noam è infatti scomparso nelle scorse ore: aveva 68 anni.
Da tempo combatteva una battaglia contro la leucemia. Nelle ultime settimane le sue condizioni di salute si erano significativamente aggravate, tanto da portarlo a un ricovero urgente in ospedale. “Immagino che cinque anni e mezzo di stress non abbiano giovato in alcun modo alla mia salute” aveva raccontato Shalit in un’intervista andata in onda per i dieci anni del ritorno del figlio. Una rara occasione pubblica per una famiglia che ha scelto la riservatezza dopo una lunga ed estenuante campagna per poter riabbracciare Gilad. “Cerco di non tornare indietro e ricordare il periodo in cui era in prigionia, ma a volte riemerge”, aveva spiegato Noam nell’intervista all’emittente N12. Davanti a lui allora diversi raccoglitori in cui la moglie Aviva aveva accumulato decine, centinaia di articoli di giornale, manifesti, appelli. Una cronostoria in carta di cinque anni e mezzo passati ad attendere il figlio. Un passato, spiegava Noam, che Gilad preferisce lasciare alle spalle, cercando di rimanere concentrato sul futuro e lontano dall’attenzione mediatica. “È meno interessato a ciò che era, più concentrato su cosa sarà”. Della prigionia il figlio ha sempre parlato poco. “Noi come genitori non abbiamo voluto forzare”, avrebbe ammesso. E comunque, anche durante la lunghissima detenzione nelle mani dei terroristi “sapevamo che (Gilad) non si sarebbe spezzato facilmente”. In quegli anni Noam e Aviva avevano lanciato una campagna globale per sensibilizzare il governo di Gerusalemme, l’opinione pubblica israeliana e internazionale ad impegnarsi per restituire la libertà a Gilad. Cartelloni, bandiere e adesivi erano apparsi in tutta Israele e la solidarietà si era messa in moto anche all’estero, da New York a Roma.
I Shalit avevano eretto una tenda di protesta fuori dalla residenza del primo ministro a Gerusalemme, diventata un luogo simbolo della loro battaglia. Nell’estate del 2010, Noam aveva guidato giorni di marce in tutta la nazione chiedendo al governo di agire per il suo rilascio. “La sensazione che il paese fosse dietro di noi era travolgente”, aveva raccontato Shalit nel 2014 in una visita negli Stati Uniti. “Quella che era iniziata come una battaglia solitaria si è trasformata in un movimento di massa”.
Poi, a fine 2011, la notizia tanto attesa, per cui avevano combattuto senza sosta: Israele aveva trovato un accordo con Hamas. In cambio di 1027 prigionieri Shalit sarebbe stato liberato. Un paese intero festeggiò insieme alla famiglia il 18 novembre 2011 quando Gilad scese dall’aereo e riabbracciò il padre Noam. In seguito padre e figlio sarebbero stati insieme a Roma, di cui Gilad è cittadino onorario, per un indimenticabile incontro in Campidoglio organizzato in collaborazione con la Comunità ebraica.
Non mancarono più avanti le polemiche legate allo scambio di un soldato in cambio di oltre mille prigionieri. Polemiche a cui Shalit rispondeva sottolineando che “ci sono abbastanza terroristi di Hamas e della Jihad islamica da imprigionare. Anche se questi specifici terroristi non fossero stati rilasciati, ce ne sono molti altri che vogliono e possono commettere atti terroristici”. Ricordò che il loro impegno era diretto al risultato, non al come ottenerlo. “Abbiamo lanciato una campagna per fare pressione sul governo affinché lo liberasse, ma non abbiamo mai cercato di dire a nessuno come ottenere questo. Se il governo di allora non è riuscito a fare pressione su Hamas in altri modi – le sue parole nell’intervista del 2019 – allora non c’era alternativa per liberare Gilad se non rilasciare i prigionieri”.
Sulle polemiche in ogni caso la famiglia Shalit ha evitato di soffermarsi, concentrandosi su se stessa, sui figli e sulla lotta del padre con la leucemia. “”Noam è riuscito a vedere i suoi due figli sposarsi e a godersi il primo nipote nato dal maggiore Yoel e dalla moglie Yaara”, ha affermato Liebman. Per Yoel Marshak, altro amico e sostenitore dei Shalit, “Noam era un simbolo dell’essere padre”.
Sia il suo ricordo di benedizione.