Le parole concave
Non esiste parola altrettanto inflazionata quanto il termine “identità”. Del pari, in Italia, si trovano soltanto i rimandi ossessivi alla libertà e, forse, alla Costituzione. Inutile aggiungere che un tale lemma, tanto più è utilizzato incautamente quanto meno è conosciuto nelle sue tante sfaccettature. Poiché chi lo richiama quasi sempre parte dal presupposto che abbia un significato non solo certo, in quanto circoscrivibile, bensì condiviso nonché rigorosamente univoco. Invece, molto spesso non è così. Si tratta infatti di un’espressione polisemica, tale perché può assumere valori diversi a seconda non solo di chi ne faccia ricorso ma anche in base ai contesti in cui è richiamato. Esiste infatti una storicità delle parole così come dei fatti. Anche per questo, forse, Carlo Levi aveva ragione quando diceva che ciò che diciamo e scriviamo equivale al gesto di gettare un sasso, destinato quindi a lasciare un segno. Su di noi così come sugli altri. Eppure, rispetto a chi continua a pensare che l’identità corrisponda all’omologia e all’eguaglianza, in una sorta di condizione senza scorrimento storico, varrebbe forse la pena controbattere che è identico non ciò che è parte di una serie (ossia una ripetizione) bensì colui o ciò che rispondono alla capacità di tenere simultaneamente in se stessi parti diverse, a volte anche contraddittorie, senza per questo frantumarsi. L’identità non indica mai una condizione statica ma una capacità evolutiva. Si ridisegna, e si conserva, il profilo di se stessi solo se si è in relazione con gli altri da sé. Matura un’identità, quindi, chi sa anche rispondere all’adattamento dettato dalle condizioni date, dal disegno – per così dire – delle situazioni oggettive, tali perché non modificabili per propria volontà ma semmai destinate ad imporsi ad essa. L’identità, da questo punto di vista, non è mai alterazione e neanche alterità, così come non costituisce un’acquiescenza opportunistica o parassitaria. Piuttosto varrebbe la pena di definirla come tassello irripetibile di un mosaico dove ciò che tiene insieme le diverse tessere, dando ad esse un significato unitario, è quella forza di connessione tra distinti che è costituita dalla coesione sociale e culturale. Il cliché per il quale ci si lega solo tra omologhi è quanto di più antistorico sia stato detto (e imposto) nel corso del tempo. Implica un pensiero totalitario, basato sulla standardizzazione dei caratteri, dei comportamenti, dei pensieri, dei legami e delle relazioni. Segnatamente, una tentazione, quest’ultima, che non è mai venuta meno. Tanto più nei momenti di incertezza storica. Identità è unione nella condivisione, non passiva accettazione di un calco precostituito. Indica quindi ricomposizione. Chi ha paura della differenza è invece destinato a vivere nella diffidenza. Verso se stesso, prima di tutto, poiché quel che il più delle volte teme non è tanto ciò che sta al di fuori della sua persona ma l’incapacità di leggere la propria complessità riflessa nello sguardo e nella presenza altrui. Quando tuttavia è così, allora, ciò che può rimanere è solo il riscontro della banalità del vivere, un limite capitale in quanto segnala dell’assoluta inconsistenza della propria persona. Che per fingere di avere qualcosa da dire si nasconde, per l’appunto, dietro alle parole concave, tali in quanto altisonanti ma completamente prive di altro spessore che non sia quello dei contenuti di comodo che vengono attribuiti loro, di volta in volta, in un gioco di eterna sostituzione, dove nulla si fissa una volta per sempre. Poiché il loro vero significato è il vuoto pneumatico.
Claudio Vercelli
(3 aprile 2022)