La penna e le penne
Non è che ci sia poi molto da commentare rispetto all’approvazione in Senato della proposta di legge 1371 che contempla l’istituzione della «Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino» individuandola nella data del 26 gennaio di ciascun anno. «Scopo del provvedimento è quello di tenere vivo il ricordo della battaglia di Nikolajewka [Nikolaevka], combattuta dagli alpini il 26 gennaio del 1943 e di promuovere “i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano” (art.1)». Queste le motivazioni addotte, e quindi incorporate nella norma della legge, che – peraltro – era già stata approvata nel suo disegno generale in prima lettura alla Camera dei deputati nella seduta di lunedì 25 giugno 2019. Si tratta di un altro tassello di quella strategia della nullificazione del senso storico che da tempo va avanzando nel nostro Paese. Il senso storico non stabilisce gerarchie morali ma offre strumenti, tra gli altri, per rafforzare la coesione civile e la condivisione etica. Non detta la cornice della verità ma offre gli strumenti per comprenderla. L’affastellamento di memorie, tra di loro anche contraddittorie poiché ispirate ad una falsa parificazione tra eventi, protagonisti e scenari non solo diversi ma in competizione, ne costituisce invece il capovolgimento. Poiché, così facendo, tutto cade in una sorta di relativismo, dove conta l’eterna intercambiabilità delle sofferenze e null’altro. Tema senz’altro delicato, beninteso. Ma irrinunciabile, nella sua analisi critica, se oltre alla conta dei morti si dice anche – e soprattutto – chi e come questi, piuttosto che quelli, gli uni invece che gli altri, sono concretamente morti: ad esempio, in quale contesto, per quale mano, dentro quale disegno politico e strategico e così via. Gli alpini di Nikolaekwa erano perlopiù giovani inconsapevoli – Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern ed altri ce l’hanno raccontato mille volte – caduti in una furiosa battaglia generata dalla risposta militare russa (peraltro allora ancora di ordine perlopiù difensivo) alla feroce aggressione nazifascista, quindi dentro una colpa politica tutta italiana (e tedesca). Evento militare e responsabilità politica non sono separabili. Il dispositivo della proposta di legge è invece imbarazzante, poiché rinnova l’oblio (che intende semmai rafforzare) delle stesse responsabilità politiche, sommergendolo dentro una retorica, grondante melassa, di falso umanitarismo. Qualcosa del tipo, “poveri ragazzi…”: sì, ma per quali ragioni furono gettati in quel carnaio dove, segnatamente, se avessero vinto le forze dell’Asse non solo gli ebrei ma anche una parte delle popolazioni slave sarebbero state annientate una volta per sempre? Carne al fuoco e polveri nei mortai, in buona sostanza, per quelle parti politiche che male sopportano la Repubblica costituzionale. E con essa la frattura che ne sta all’origine. Si può stare certi che, così come è già ripetutamente avvenuto per il disinvolto ricorso al Giorno del Ricordo in chiave di rivalsa, anche per questa ricorrenza – significativamente anteposta al 27 gennaio, e nel corso della quale si celebra un evento che appartiene comunque alla guerra di aggressione nazifascista – si succederanno polemiche di ogni genere. Soprattutto, se ne farà un uso revanscista. La sacca di Nikolaevka e i cancelli di Auschwitz come due facce della stessa medaglia, quindi? In tutto ciò, ossia nell’incauta deliberazione parlamentare, senz’altro conta la generale deficienza di cultura politica e storica (o di cultura tout court) della grande maggioranza dei parlamentari. Anzi, il convincimento che sia piuttosto un ingombro. In una sorta di effetto di reciproco rispecchiamento tra rappresentanti e rappresentati. Ma c’è anche dell’altro. A fronte di un’oramai ossessiva bulimia memorialistica (una specie di meccanismo ad orologeria, destinato prima o poi a disintegrarsi mandando in pezzi tutto quello che fingeva di volere “costruire”), le ragioni stesse per le quali si era deciso di trasformare un ricordo collettivo – quello dello sterminio razzista – in esercizio di coscienza civile, vengono ora progressivamente dismesse, dal momento che si è innescata da tempo una competizione per acquisire lo statuto di vittime (totali, inconsolabili, irrisarcibili, incontestabili, quindi da onorare sempre e acriticamente) come parte premiante del più generale mercato politico. Nel quale, poi, l’accredito così conseguito viene speso per legittimare un fuoco di sbarramento contro gli avversari (qualcosa del tipo: “di che cosa ci ammonite, dal momento che noi stessi abbiamo avuto – e quindi siamo ancora – delle vittime?”). È come se una società ossessivamente ripiegata su delle mere immagini cristallizzate del passato, tali poiché (inter) cambiabili nella loro fittizia equivalenza di figurine, neutralizzasse se stessa nelle sue aspettative di futuro. Poiché il vittimismo – che non a caso in America è strategia politica, che serve a zittire ogni forma di interlocuzione dialettica – dichiarando che nel passato si è subito un torto intollerabile, afferma di non volere vedere immagine altra che non sia quella propria riflessa all’infinito. Ancora una volta il grado zero della politica e della coscienza civile costituiscono un amaro dividendo di questo segno di declino della consapevolezza critica, sostituita dal gusto della mera sovrapposizione polemica di ragioni e storie, tutte annichilite dentro il calderone dell’equivalenza. E se le ragioni per cui si muore si equivalgono, allora anche le differenze tra un’esistenza retta ed una che tale non è, si anestetizzano. Peccato che ancora una volta ad essere chiamati in causa in misura così strumentale siano proprio coloro, i giovanissimi alpini del 1943, del tutto incolpevoli, che lottavano per la propria sopravvivenza, dentro una guerra che non gli apparteneva ma di cui, a quel punto, erano a chiamati a pagare pegno al posto dei felloni e dei traditori che li stavano sacrificando. Nel nome della «Patria», si intende…
Claudio Vercelli